Se Silvio Berlusconi aveva ancora qualche dubbio su quella che lo stesso Giornale di famiglia ha definito “svolta” nei rapporti col Pd o, più in particolare con Matteo Renzi, archiviando rabbia e diffidenza provocategli dalla gestione tutta renziana, due anni fa, dell’elezione di Sergio Mattarella a presidente della Repubblica, credo che glielo abbia fatto passare lo spirito antiberlusconiano neppure tanto nascosto che ha contrassegnato il congresso della Lega a Parma. Dove Matteo Salvini, forte dell’82 per cento raccolto nelle primarie la domenica precedente, ha veramente chiuso in soffitta, proteggendolo persino dai fischi, il fondatore del movimento Umberto Bossi e fatto spallucce al governatore lombardo Roberto Maroni. Che ora dovrà stare ben attento se punta davvero ad un altro mandato per la guida della regione più ricca d’Italia continuando a sostenere la irrinunciabilità all’intesa con Berlusconi.
Se non siamo ormai alla guerra pur metaforica, siamo almeno alla guerriglia di Salvini. Che ha toccato il punto più alto, almeno per come hanno vissuto la vicenda ad Arcore, col gioco di sponda compiuto dai leghisti alla Camera col Pd bevendo il Rosatellum ancora prima che la legge elettorale chiamata così approdasse in aula il 5 giugno prossimo. Un vino -la cui paternità peraltro si deve un po’, e non a caso, anche al senatore Denis Verdini, quello che Berlusconi, operato l’anno scorso al cuore, non volle nemmeno ricevere in ospedale, obbligandolo solo a qualche tentativo di approccio telefonico – che con quel 50 per cento di distribuzione proporzionale dei seggi parlamentari e l’altro 50 per cento di collegi uninominali a geometria politica variabile, da posto a posto, l’ex Cavaliere ha avvertito solo come una trappola contro di lui.
Non è forse sbagliato pensare che Renzi, tornato alla guida del Pd con la sua vecchia furbizia toscana, abbia giocato o permesso a Salvini di giocare di sponda con lui per qualche ora o giorno proprio allo scopo di far saltare il sismografo ad Arcore e spingere Berlusconi a voltare pagina. Cosa che significa per Renzi, ad occhio e croce, in cambio di un sostanziale ritorno al sistema proporzionale e di una soglia di accesso al Parlamento del 5 per cento dei voti, l’adesione del presidente di Forza Italia alle elezioni anticipate in autunno e la rinuncia alla voglia più volte mostrata nei mesi scorsi di porre un veto contro Renzi, dopo le elezioni, come presidente del Consiglio oltre che segretario del Pd.
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Se gli ambasciatori dei due capi già protagonisti di un patto, quello del Nazareno, interrotto più di due anni fa, sono tornati a sentirsi e persino a vedersi, come si sussurra nei palazzi della politica, possono contare in questi giorni sulla distrazione dei giornali, tutti presi dalla celebrazione dei 25 anni trascorsi non solo dall’esplosione di Tangentopoli, avvenuta il 17 febbraio 1992 con l’arresto a Milano del socialista Mario Chiesa in flagranza di mazzette, ma anche dalla strage di Capaci, dove il 23 maggio, mentre si susseguivano stancamente a Montecitorio le votazioni per l’elezione del successore di Francesco Cossiga al Quirinale, la mafia uccise il magistrato Giovanni Falcone, la moglie e 3 agenti della scorta facendo saltare le loro auto su una quantità e qualità di esplosivo da guerra.
Non fu peraltro la prima o unica strage della mafia in quel delicatissimo anno politico. Mesi prima era stato ammazzato per strada il luogotenente di Giulio Andreotti in Sicilia, Salvo Lima, punito per non avere soddisfatto le attese di Cosa Nostra che la Cassazione azzerasse l’esito del cosiddetto maxiprocesso. E meno di due mesi dopo Falcone, che di quel processo era stato un po’ la mente, la mafia uccise anche il suo collega più caro e più valido: il povero Felice Borsellino, colpevole anche di avere avvertito e di volere ostacolare tentativi di trattative, o qualcosa del genere, fra pezzi dello Stato, o dei suoi servizi segreti, e il vertice mafioso per evitare altre stragi ancora. Tentativi tradotti poi dalla Procura di Palermo, ad opera soprattutto dell’ora ex magistrato Antonio Ingroia, in una trama con tanto di imputati sotto processo nella capitale siciliana da quattro anni.
Non so francamente se trattative di quel tipo ci fossero state davvero, ma so di sicuro due cose. Alcuni degli imputati di Palermo sono stati già assolti o in un giudizio abbreviato o in altri processi dove si sono trovati a rispondere di accuse analoghe, o ad esse collegate. E i capi della mafia che vollero e ordinarono quella svolta stragista dopo la conferma delle condanne nel maxiprocesso o sono finiti e si trovano ancora in carcere o vi sono morti. Mi riferisco, rispettivamente, a Totò Riina e a Bernardo Provenzano.
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Alla celebrazione dei 25 anni dalla strage di Capaci ha appena partecipato, con una intervista al Corriere della Sera raccolta dal quirinalista Marzio Breda, la figlia dell’involontario, per carità. ma maggiore beneficiario politico di quella mattanza: Oscar Luigi Scalfaro, eletto presidente della Repubblica in tutta fretta, sotto l’effetto traumatico di Capaci, alla prima votazione successiva alla strage: la sedicesima, del 25 maggio.
Solo un’altra volta la figlia di Scalfaro, Marianna, ha fatto sentire la sua voce dopo la fine del mandato presidenziale del padre, per smentire sdegnata voci ed anche circostanze, emerse più o meno chiaramente anche dal processo in corso a Palermo sulla presunta trattativa fra lo Stato e la mafia, secondo cui il Quirinale non fu estraneo a cambiamenti di vertici e di trattamenti nei penitenziari italiani conformi alle attese o alle pretese degli stragisti.
Questa volta la figlia di Scalfaro ha voluto far sentire la sua voce per testimoniare l’angoscia, sicurissima, del padre di fronte alla tragedia di Capaci, il sospetto che non fosse solo mafia quella specie di rigurgito di terrorismo che si visse in quella stagione terribile, la sua paura che la combinazione fra stragi di mafia e sgomento dell’opinione pubblica per la corruzione politica rivelata dalle inchieste giudiziarie sfociasse in una “guerra civile” e la convinzione infine maturata, sempre dal padre, che fosse nata proprio in quei frangenti la cosiddetta seconda Repubblica.
Beh, per quello che può contare, per carità, la mia impressione sulla nascita della cosiddetta seconda Repubblica è molto diversa. La seconda Repubblica, diversa dalla prima non solo e non tanto per il cambiamento del sistema elettorale quanto per il rovesciamento dei rapporti di forza fra magistratura e politica, a tutto vantaggio della prima, non nacque né a Capaci né nei suoi dintorni, fisici e politici, ma nel palazzo dove lavorava il padre di Marianna Scalfaro, e dove lei stessa gli stava molto accanto. Fu lui, fra l’altro, ad innovare la prassi delle consultazioni per la formazione di un nuovo governo ammettendovi il capo di una Procura della Repubblica. Fu sempre lui l’anno dopo a negare la firma ad un decreto legge per la cosiddetta uscita politica di Tangentopoli, per quanto varato dal primo governo di Giuliano Amato in stretto collegamento col Quirinale, dopo che ne era stato pubblicamente contestato il contenuto proprio dal capo di quella Procura. E non dico altro anche perché non ne ho lo spazio.