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Ecco i perché della visita di Donald Trump in Israele

Il presidente americano Donald Trump è atterrato in mattinata all’aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv. L’Air Force One proveniva dall’Arabia Saudita, prima tappa del lungo viaggio – il primo in assoluto – all’estero del commander in chief. Sauditi e israeliani sono due alleati forti degli Stati Uniti, con i quali Trump sta cercando di ricucire uno strappo creato ai tempi dell’amministrazione Obama.

Strappo che, relazioni personali tra Barack Obama e Bibi Nentanyahu a parte, aveva una motivazione piuttosto esplicita: Obama aveva lavorato intensamente per intavolare l’accordo sul nucleare con l’Iran, nemico giurato esistenziale di Riad e Gerusalemme, e i due principali partner strategici mediorientali si erano allontanati dagli Stati Uniti. In più: gli americani avevano avviato un disimpegno non gradito e concordato dagli affari mediorientali.

Ora Trump sta cercando di configurarsi come un ponte di collegamento tra Israele e Arabia Saudita, due paesi che non hanno formali relazioni diplomatiche, ma che intavolano rapporti back-channel che hanno due obiettivi essenziali: il contrasto all’Iran e quello al terrorismo; due aspetti che non sempre sono così separati. “Common cause“, una causa comune condivisa da entrambi i paesi: sono queste due parole il punto centrale dell’intervento che il presidente americano ha tenuto insieme all’omologo israeliano Reuven Rivlin, secondo il direttore del Washington Institute Robert Satloff.

Può essere l’Iran quella causa comune? Possibile. Da Teheran arrivano anche le critiche del neo eletto Hassan Rouhani: il presidente, inquadrato tra i moderati, si allinea sulla posizione ufficiale Iranians che sostiene che Trump stia usando l’acredine verso la Repubblica islamica solo ‘per chiudere affari’ con i sauditi.

La visita israeliana di Trump durerà meno di 30 ore effettive, durante le quali incontrerà il primo ministro Netanyahu e il presidente palestinese Abu Mazen – saranno due incontri separati, il segretario di Stato Rex Tillerson ha detto che forse “un domani” ci sarà un vertice a tre – poi una preghiera al Muro occidentale e una visita alla Chiesa del Santo sepolcro di Gerusalemme. Martedì sarà a a Betlemme – lì l’incontro con Mazen, poi ripartirà per arivare dal Papa a Roma.

Sullo sfondo la postura che Trump deciderà di adottare nei confronti della questione israelo-palestinese: del dossier si occupa il genero-in-chief Jared Kushner, marito di Ivanka Trump e capo dei negoziatori tout court dell’amministrazione Trump.

Risolvere la situazione è uno degli obiettivi che il presidente repubblicano s’è dato in politica estera. Gli israeliani temono un’obamizzazione di Trump sul dossier, ossia uno spostamento verso la soluzione a due stati promossa negli ultimi anni dagli Stati Uniti. Sulla ricerca di quella causa comune, che porterà a un riallineamento regionale, secondo il New York Times, potrebbero anche pesare le pressioni di Trump affinché Israele trovi un accordo con i palestinesi, assecondando le richieste dei paesi del Golfo.

Collegamento con l’attualità: durante il suo discorso Trump ha detto di non aver mai fatto il nome di Israele all’interno dello Studio Ovale. Il riferimento è alla notizia della scorsa settimana, secondo cui il presidente aveva parlato con due alti funzionari russi di un’informazione avuta dall’intelligence, a quanto pare israeliana, su un piano terroristico dello Stato islamico.

(Foto: Twitter, @netanyahu, i coniugi Trump con i Netanyahu, appena arrivati a Tel Aviv)

 



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