Un uccellino, diciamo così, abituato a volare attorno al Quirinale mi ha informato di un attacco d’ira inusuale di Sergio Mattarella per due titoli del Fatto Quotidiano quanto meno infelici per la memoria di suo fratello Piersanti, ucciso dalla mafia mentre era governatore della Sicilia, e soprattutto del padre Bernardo, più volte ministro dai tempi di Alcide De Gasperi in poi, sino ad Aldo Moro. Che si scusò con lui con una lettera molto affettuosa per non averlo potuto confermare in una delle crisi dei suoi governi a causa dei giochi interni del loro partito, la Dc.
I “dorotei” di Mariano Rumor, allora segretario dello scudo crociato, di Flaminio Piccoli e di Antonio Bisaglia reclamavano più posti per i loro fedeli a discapito proprio degli amici di Moro. Che, accusato di avere rapporti troppo arrendevoli con i socialisti, era sospettato già allora di volersene andare dalla comune corrente e di volerne costituire una per conto suo: cosa che avvenne in effetti nell’autunno del 1968, dopo che i “dorotei” lo avevano sfrattato da Palazzo Chigi per insediarvi Rumor. Che, a sorpresa, divenne con i socialisti molto più paziente e generoso di Moro, realizzando un governo di centro sinistra “più incisivo e coraggioso”.
Bernardo Mattarella fu tra i primi ad aderire alla nuova corrente morotea, che lo designò con successo alla presidenza della Commissione Difesa della Camera. Egli morì nel 1971 dopo un malore occorsogli proprio a Montecitorio. E morotei furono anche i figli giovanissmi: il già ricordato Piersanti, ucciso dalla mafia, e il fratello Sergio, subentratogli nella carriera politica lasciando quella universitaria. Moro nel frattempo era morto, barbaramente sequestrato e poi ucciso dalle brigate rosse nel 1978, ma non era morto il moroteismo, inteso come pensiero e come stile, cioè come modo di fare politica, privilegiando il “confronto”, che fu il titolo dell’agenzia nata con la corrente di Moro, allo scontro, il dialogo alla rottura.
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Il rammarico di Moro per avere dovuto rinunciare nel febbraio del 1966 all’amico Mattarella come ministro era stato doppio: sia per i rapporti di amicizia e di stima che li legavano sia per le polemiche che proprio in quegli anni avevano colpito lo stesso Mattarella sul terreno già allora scivoloso dei rapporti con la mafia: polemiche alimentate da un libro del sociologo Danilo Dolci ricavato, a sua volta, da voci, insinuazioni e interpretazioni di carte della commissione parlamentare antimafia. Un libro che secondo gli avversari politici di Mattarella aveva contribuito alla sua estromissione dal governo, ma che procurò all’autore già nel 1967 una condanna in tribunale. Sull’onda della quale nei mesi scorsi è stato condannato a Palermo l’autore di un altro libro assai critico sul defunto esponente democristiano al termine di una causa civile, in primo grado, promossa da Sergio Mattarella, prima della sua elezione al Quirinale, e dai figli del fratello Piersanti, anche lui coinvolto nella rappresentazione di una famiglia compromessa con la mafia.
Questi precedenti possono aiutare a capire non solo la sorpresa ma la rabbia del presidente della Repubblica di fronte a due titoli comparsi sul Fatto Quotidiano. “E Falcone rivelò: Piersanti Mattarella disse: mai più voti mafiosi a casa di papà” è il richiamo in prima pagina di un articolo di Giuseppe Lobianco in decima pagina, dove il titolo si ripete dicendo: “Quando Piersanti Mattarella rifiutava i voti di suo padre”.
La sorpresa e la rabbia, comprensibili, del capo dello Stato derivano anche dalle circostanze e modalità, diciamo così, nelle quali il quotidiano diretto da Marco Travaglio ha voluto rilanciare un’immagine non certamente gratificante del padre: usando il figlio Piersanti e insieme anche Giovanni Falcone, di un cui racconto -se si può chiamare così- ricavato dal volume appena pubblicato dal Consiglio Superiore della Magistratura, nel venticinquesimo anniversario della tragica morte del magistrato siciliano, si è avvalso l’autore dell’articolo del Fatto.
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Il racconto di Falcone non è neppure diretto. Esso riferisce di un altro racconto, ricevuto dall’amico avvocato Sorgi, padre del mio collega Marcello, editorialista e già direttore della Stampa.
Dopo l’omicidio dell’allora governatore della Sicilia, avvenuto nel giorno della Befana del 1980, sotto casa, l’avvocato Sorgi parlò della vittima a Falcone riferendogli di un colloquio avuto col governatore non so quanto tempo prima. Eccone il resoconto nelle parole di Falcone riportate testualmente da Lobianco sul giornale di Travaglio: “Era felice – Piersanti, naturalmente- perché se prima aveva ereditato il collegio elettorale del padre, e veniva votato esclusivamente a Castellammare -Castellammare del Golfo, in provincia di Trapani, di circa 15 mila abitanti- dove non si può dire che siano tutti delle brave persone (in realtà è un luogo ad alta densità mafiosa), alle ultime elezioni veniva votato un po’ ovunque per la sua azione moralizzatrice”.
Non voglio dare lezioni di giornalismo, così come non desidero francamente riceverne dopo più di cinquant’anni di professione, ma lascio giudicare a voi che mi leggete se quei due titoli che vi ho già riferito – e che vi ripeto: “E Falcone rivelò: Piersanti Mattarella disse: mai più voti mafiosi a casa di papà” e “Quando Piersanti Mattarella rifiutava i voti di suo padre” – corrispondano davvero alla lettera e allo spirito del racconto dell’avvocato Sorgi a Falcone e da Falcone lasciato nelle carte pubblicate dal Consiglio Superiore della Magistratura per celebrarne la memoria, come atto riparatore dei torti riservatigli in vita. O delle “sofferenze”, come ha detto la sorella del magistrato spiegando che il fratello “cominciò a morire”, ben prima di essere ucciso dalla mafia con la moglie e metà della sua scorta, proprio quando l’organo di cosiddetto autogoverno della magistratura gli negò la nomina a consigliere istruttore, e addirittura lo processò, diciamo così, andando appresso ai suoi detrattori siciliani, colleghi o politici che fossero.
Il guaio, diciamo così, suppletivo è che il povero Piersanti Mattarella non ereditò dal padre nessun collegio elettorale, essendosi sempre candidato a Palermo, per cui l’avvocato Sorgi o scambiò fischi per fiaschi o s’inventò tutto con Falcone tradendone la fiducia.
Quando questa circostanza non certo secondaria è stata fatta presente al giornale di Travaglio per conto degli eredi Mattarella con tanto di lettera dell’avvocato Antonio Coppola, finita naturalmente in uno spazio minimale, sapete quale è stata la risposta del quotidiano che vanta di essere il più informato e serio d’Italia, dando agli altri dei cialtroni, o quasi, incapaci di fare le dovute verifiche e cose simili? La risposta è stata, in pratica, di prendersela con la buonanima di Falcone, una volta tanto incauto a fidarsi del suo amico avvocato e a riferirne in un’audizione al Consiglio Superiore della Magistratura il 15 ottobre 1991. Nessuna parola di scuse per quei titoli a dir poco forzati sparati contro la famiglia Mattarella anche solo nella versione Sorgi dei fatti. Incredibile ma vero.