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Come avanza l’Iran in Siraq e cosa faranno gli Stati Uniti

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Con la caduta delle roccaforti dello Stato islamico annunciate ma ancora in itinere, per il Siraq si avvicina un problema grosso come una casa o, appunto, due Paesi: chi governerà i territori amministrati spietatamente per tre anni dai tagliagole? In assenza di chiare indicazioni internazionali – il processo di Ginevra e quello parallelo di Astana sono sospesi – è ovvio che quel compito spetterà alle truppe che sono già posizionate sul terreno. E qui comincia il problema, perché a spartirsi le aree tra Mesopotamia e Mediterraneo c’è un ingolfamento di soldati con varie mostrine (incluse quelli di Assad) e, soprattutto, le grandi potenze che tutto sorvegliano dall’alto e dal basso.

Diciamo che il problema sarebbe più semplice se posto in maniera più chiara: permetteranno gli Stati Uniti all’Iran di essere il dominus indiscusso dell’area? La situazione sul campo sembra indicare abbastanza chiaramente che la risposta potrebbe essere positiva: l’Iran è destinato a mescolare le carte più importanti della partita mediorientale. Il suo ruolo, insieme a quello russo, nel liberare interi territori infestati dalle bandiere nere è indiscusso e le milizie regolari e regolari sciite hanno combattuto valorosamente al fianco delle truppe regolari. La linea vitale con gli alleati di Hezbollah è sempre aperta, come ben sanno gli israeliani che monitorano tutto. Insomma, caduto lo Stato islamico, il Medio Oriente vedrà davvero l’avvento di una mezzaluna sciita che da Teheran passa per Baghdad e Damasco, senza trascurare Beirut?

La risposta è tutt’altro che sicura, come chiunque abbia seguito la politica estera della Casa Bianca in queste settimane si è accorto. La prima tappa del primo viaggio all’estero di Donald Trump è stata l’Arabia Saudita, dove si sono consolidati i rapporti, siglati contratti multimiliardari e rinnovata la storia amicizia tra la superpotenza a stelle e strisce e la Grande potenza del Golfo. Tutto lascia intendere che negli intensi colloqui condotti alla corte di Riyad si sia diffusamente parlato del futuro del Medio Oriente, e in particolare di quella peculiare tendenza di Teheran a trasformare ogni opportunità in un’occasione di ingerenza. Washington è molto preoccupata in particolare per la guerra per procura in corso in Yemen, dove gli iraniani sostengono attivamente la ribellione Houthi sfidando apertamente lo status quo sunnita. Dopo iniziali esitazioni dovute all’elevato numero di vittime collaterali nel conflitto, Washington ha deciso di riprendere la fornitura di munizioni letali e di precisione all’Arabia Saudita, nell’auspicio che la mossa imprima un’accelerazione definitiva al conflitto.

Ma oltre allo Yemen, ci sono i dossier tradizionali. Tra questi, uno di cui si è parlato molto in questi giorni: il JCPOA, ossia l’accordo tra Iran e comunità internazionale sull’atomica. Gli Stati Uniti hanno chiaramente fatto intendere di essere insoddisfatti per l’intesa, definita “the worst deal ever” da Donald Trump. A cosa ciò possa preludere è difficile dirlo. È improbabile che gli Usa si ritirino del tutto dal JCPOA, anche per l’ostilità che susciterebbe tra gli altri firmatari del patto e per l’impossibilità di rimettere in piedi una macchina negoziale così imponente che possa condurre ad un accordo più vantaggioso per Washington.

Ma se il JCPOA non è a rischio, lo stesso non può dirsi per il clima amichevole che, secondo le intenzioni di Obama, esso doveva propiziare tra i principali attori della regione, sunniti e sciiti. Al contrario una rinnovata ostilità americana verso i secondi sarebbe salutata con favore da tutti gli alleati sunniti di Washington, che nella sigla del patto del 2015 avevano visto una sorta di tradimento. La visita saudita di Trump, seguita non a caso da un’altra tappa mediorientale come Gerusalemme, sembra confermare che la Casa Bianca abbia definitivamente messo in soffitta la “Obama doctrine” e che si stiano preparando per manovre più allineate agli standard della sua storia conflittuale con l’Iran.

Un’ultima notazione riguarda il necessario processo di riconciliazione da avviarsi in Iraq. Sappiamo tutti che l’ascesa dello Stato islamico nelle regioni sunnite dell’Iraq è stato dovuto anche alla linea intransigente di Baghdad, succube di Teheran, che impediva ogni processo di pacificazione e di equo governo con gli iracheni sunniti. Di fatto, tra l’essere sottoposti al controllo dei tagliagole e a quello dell’esercito sciita di Baghdad, molti hanno scelto la seconda opzione. Cosa accadrà a breve quando questa situazione si ripresenterà? Riuscirà il team Trump a mettere insieme gli attori della regione e a convincerli ad avviare un processo di pacificazione inclusivo e non settario, tanto della Siria quanto dell’Iraq? Per avere una risposta dovremmo intuire quali saranno le prossime mosse americane con i russi, i quali come sappiamo hanno una posizione consolidata nel Levante da difendere e un’alleanza di ferro con l’asse sciita. Se la diplomazia americana, magari corroborata da qualche vittoria sul campo come quella annunciata di Raqqa, dovesse conquistare posizioni, ci sarebbero ben altre possibilità di addivenire ad una soluzione al puzzle del Siraq di concerto con Mosca. Sempre che il RussiaGate non rovini tutto nel frattempo.



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