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Il menu elettorale tra tasse alla Maroni, patrimoniale e Fiscal Compact

In questa campagna elettorale ci sono molte proposte: trattenere le imposte nella regione dove si originano, varare una patrimoniale sulle grandi fortune, vendere una parte del patrimonio pubblico, rilanciare l’economia attraverso un bilancio pubblico più espansivo.

Riordino fiscale
Il peso del Mezzogiorno si manifesta attraverso la spesa pubblica che – per finanziarsi – accresce il carico d’imposta nelle altre regioni. Se si prende la spesa pubblica (senza considerare l’onere del debito pubblico) e si sottraggono le entrate tributarie di ogni macro regione ha una prima informazione. La differenza fra la spesa e le entrate è il saldo primario. Se quest’ultimo è positivo vuol dire che si pagano più imposte di quanti servizi si ricevano.

La macro area Nord Ovest ha un surplus primario pari al 5% del suo Pil. Il Nord Est appena meno. Il Centro è circa in pareggio, ossia riceve servizi per l’equivalente delle imposte che versa. Il Sud riceve molti più servizi di quanti arriverebbero sulla sola base delle imposte versate. Il suo deficit primario sul suo Pil è pari al 15%. Poiché il Pil del Meridione è modesto, mentre quello del Nord e (parzialmente) del Centro è grosso, si ha che su base nazionale il deficit primario del Meridione pesi per il 4% del Pil italiano.

La proposta di Maroni di trattenere in Lombardia il 75% delle imposte ha questo significato: il 25% delle imposte lombarde paga il debito pubblico nazionale e le spese centrali che non possono essere suddivise, come gli apparati militari. Il residuo resta in Lombardia e paga tutte le spese, sia quelle che oggi sono a carico dello stato sia quelle che sono a carico delle regioni. Alla fine non si avrebbe – come sostenuto prima – un gran risparmio sul fronte delle spese – ossia un maggior reddito privato netto – ma un maggior controllo locale sulle risorse.

Imposta patrimoniale
Lo scorso anno quasi tutti i giornali titolavano scandalizzati che il 10% dei cittadini italiani possiede il 45% della ricchezza. Il ragionamento che segue mostra come in una società semi egualitaria si abbia una concentrazione del 40% della ricchezza presso il 10% dei cittadini. Ecco il ragionamento. Nessuno eredita e tutti guadagnano lo stesso reddito che cresce poco con “scatti di anzianità” annuali eguali per tutti. Tutti vivono ottanta anni, di cui i primi venti senza lavorare, e gli ultimi venti in pensione. Tutti hanno lo stesso consumo nel corso del tempo. I giovani, che guadagnano meno, si indebitano per consumare e poi rendono il debito quando iniziano a guadagnare bene – intorno ai quaranta anni. Perciò dai quaranta anni in poi risparmiano e poi dai sessanta anni in poi spendono i risparmi cumulati come pensione. Fatti i conti, si ha la massima concentrazione della ricchezza (del risparmio cumulato) nella fascia di età che si avvina ai sessanta anni, mentre i giovani – dai venti ai quaranta – hanno solo debito. I più ricchi, che sono tutti nella mezza età avanzata, sono il 10% della popolazione ed hanno il 40% della ricchezza.

Se un calcolo sulla concentrazione della ricchezza in una società semi-egualitaria – nessuno eredità e tutti hanno lo stesso scatto di reddito con il passare degli anni – produce una concentrazione della ricchezza simile a quella osservata (40% contro 45%), allora non si ha ragione per chiedere una “vera” redistribuzione della ricchezza. La concentrazione effettiva della ricchezza, infatti, differisce poco da quella teorica, ed è – in entrambi i casi – concentrata nelle fasce di età a cavallo dei sessanta anni.

Vendita del patrimonio pubblico
L’andamento dei conti pubblici è frutto di queste interazioni. La differenza fra uscite (escluso il pagamento del debito) e entrate dello Stato. Se le uscite sono inferiori alle entrate, si ha un avanzo primario. Se questo avanzo primario è eguale agli oneri da interessi, non si ha deficit pubblico. (E’ quello che sta accadendo, l’avanzo primario è circa eguale alla spesa per interessi, che è intorno ai 90 miliardi di euro). Poiché il deficit pubblico è finanziato emettendo obbligazioni, quando non lo si ha più, non se ne emettono. Di conseguenza il debito pubblico resta costante come volume, e scende come percentuale del Pil man mano che questo cresce. Tutto qui? No, perché il costo del debito può essere maggiore della crescita dell’economia e quindi delle entrate fiscali. In questo caso, soprattutto se il debito di partenza è molto alto (il caso italiano), si potrebbe avere un inseguimento continuo. Se il costo del debito cresce, ecco che si debbono alzare le entrate e tagliare le uscite. Una strada è quella di ridurre l’ammontare del debito. Esso è intorno ai due mila miliardi di euro. Se è ridotto, allora un eventuale rialzo del costo del debito incide meno sui conti pubblici, ossia si possono controllare meglio le uscite e le entrate.

Sono stati fatti dei conti in uno scenario prudente, quello con l’economia che cresce poco, mentre si riesce a vendere solo una parte del patrimonio pubblico, che è composto dalle partecipazioni quotate (per esempio Eni), da quelle non quotate (per esempio le Ferrovie e le Poste), dal patrimonio immobiliare inutilizzato (per esempio le caserme), e da altre voci. I conti prudenti portano a un potenziale di introiti di 200 miliardi di euro, ossia a un ammontare pari al 10% del debito. Non cambia la vita, ma si riduce il rischio che si correrebbe in caso di rialzo dei rendimenti sul debito pubblico. Il tutto avviene mentre si taglia poco alla volta la spesa mentre si tagliano poco alla volta le imposte. E’ inutile aggiungere che le resistenze alla vendita del patrimonio pubblico sarebbero notevoli.

Rilancio attraverso un bilancio più espansivo
Passata la fase peggiore della crisi, dobbiamo continuare ancora con l’austerità (Fiscal Compact), oppure è giunto il momento di rilanciare l’economia attraverso un bilancio pubblico più espansivo (Growth Compact)? L’argomento è molto complesso. Il Fiscal Compact, vuole che i deficit pubblici siano azzerati con (quasi) qualunque andamento ciclico; il Growth Compact vuole rilanciare l’economia, usando, ma senza esagerare, i deficit pubblici. Nessuno dei due approcci – secondo chi scrive – è davvero convincente. Nel caso del Fiscal Compact (che possiamo pensare come il programma di Monti) sono troppe le assunzioni che si devono fare per avere il ritorno veloce della “fiducia”. Nel caso del Growth Compact (che possiamo pensare con combinazioni diverse delle spese e delle imposte come quello di Berlusconi e del del PD) i numeri non “girano” così facilmente.

Il Fiscal Compact è l’idea che i deficit pubblici debbano essere nulli anche in assenza di ripresa economica. I deficit pubblici nulli, infatti, non alimentano il debito, che smette di crescere. Smettendo il debito di crescere, ecco che prima o poi torna la fiducia e l’economia alla fine si riprende. Com’è che si manifesta la “fiducia”? Se il debito pubblico cresce, gli agenti economici pensano che in futuro pagheranno più imposte per tenerlo sotto controllo, perciò riducono i propri consumi oggi per tener conto delle maggiori imposte di domani. Se il debito pubblico, invece, non cresce, gli agenti economici pensano che in futuro pagheranno meno imposte per tenerlo sotto controllo, e perciò aumentano i propri consumi oggi per tener conto delle minori imposte di domani. La fiducia, a sua volta, emerge in base a due comportamenti: si assume che gli agenti tendono a spalmare – a rendere costanti – nel tempo i consumi, e si assume che facciano dei conti minuziosi sulle imposte di domani.

Potrebbe piacere l’idea opposta, il Growth Compact, meno arzigogolata, la quale afferma che è meglio avere dei deficit pubblici sobri per rilanciare l’economia. La spesa pubblica in deficit (finanziata solo con l’emissione di obbligazioni) funziona sotto tre condizioni: 1) il deficit iniziale (frutto di maggiori spese e/o minori imposte) alimenta la domanda aggregata per una somma maggiore (per ogni euro di deficit supplementare si ha più di un euro supplementare di Pil), 2) inizialmente si ha disoccupazione e si usano poco gli impianti, altrimenti si avrebbe inflazione, 3) il costo del debito pubblico è inferiore al tasso di crescita dell’economia. In Italia il costo del debito è pari – sulla media delle scadenze delle obbligazioni dai tre mesi ai trenta anni – al 4% circa. Poniamo (un’assunzione rischiosa) che il costo del debito resti invariato a fronte della ripresa della spesa pubblica in deficit. La crescita economica (reale e nominale) che riduca il peso (percentuale) del debito pubblico che si dovrebbe avere deve perciò essere superiore al 4%. La crescita economica si compone di un tasso di inflazione (precisamente il deflatore del Pil) che è pari al 2% (il valore corrente) e di una crescita reale che deve essere pari al 3% (la crescita negli ultimi anni è stata pari alla metà). Il 5% è perciò un numero molto alto per l’Italia.

Quale delle due strade scegliere? Non si ha una soluzione che possiamo definire univoca, come 3X=6 dove X è pari a 2. Si può discettare a lungo su entrambe senza concludere nulla. Chi scrive pensa che se si è avversi al rischio la strada migliore è la prima.



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