(Articolo ripreso da www.graffidamato.com)
Stimolato un po’ da una certa nostalgia dell’Ulivo, cresciuta a sinistra anche per effetto del primo turno quasi bipolare delle elezioni amministrative di questo mese di giugno, un po’ dai recenti insulti televisivi di Massimo D’Alema al vice direttore dell’Espresso, che gli aveva rimproverato, o girato le ripetute accuse di Matteo Renzi di avere “ucciso” la pianta di Romano Prodi succedendogli nel 1998 a Palazzo Chigi, un po’ dal richiamo dello stesso D’Alema a Carlo Azeglio Ciampi come testimone eccellente della propria innocenza e un po’ dal felice sarcasmo del nostro Carlo Fusi, dubbioso che l’Ulivo sia mai nato davvero, visto che non si riesce a trovare chi lo abbia sradicato, sono andato a consultarmi le cosiddette fonti. A cominciare proprio dai ricordi lasciati ben scritti da Ciampi. Dove secondo D’Alema ci sarebbero le prove, ostinatamente ignorate dai critici, della sua lealtà verso l’allora ministro del Tesoro incaricato inutilmente di rimettere insieme i cocci del primo governo di Prodi, sfiduciato alla Camera per un solo voto di scarto il 9 ottobre 1998.
Quel voto mancante fu della giovane ex presidente della Camera ed ex leghista Irene Pivetti, rimasta a Milano ad allattare una creatura partorita da poco. Ma fecero più notizia, com’era naturalmente giusto che fosse sul piano politico, i no già preannunciati e confermati nell’appello nominale da Fausto Bertinotti e da buona parte dei suoi compagni di Rifondazione Comunista, decidendo l’altra parte – quella di Armando Cossutta e di Oliviero Diliberto – di farsi un loro partito per rimanere nella maggioranza ulivista, entrando anche nel governo successivo. Dove Diliberto divenne ministro della Giustizia con D’Alema a Palazzo Chigi: il primo post-comunista che vi fosse riuscito grazie all’aiuto prestatogli dall’immaginifico Francesco Cossiga, promotore di una formazione politica apposta per arrivare a quel risultato. Una formazione che l’ex presidente della Repubblica si divertì a paragonare agli “straccioni di Valmy”, che nel 1792 procurarono alla Francia rivoluzionaria una imprevista e formidabile vittoria sulla Prussia.
Ebbene, a dispetto delle certezze di D’Alema, non ho trovato nei ricordi di Ciampi quello che mi aspettavo. Ho anzi trovato l’opposto.
Nella “Storia di un italiano” pubblicato nel 2010 da Laterza, Ciampi racconta ad Arrigo Levi, suo amico e consigliere: “Mi fu chiesto nel 1998 di guidare il governo – dopo la caduta di Prodi, n.d.r- e quell’incarico sfumò nell’arco di pochissime ore, senza che sapessi perché: un mistero che né D’Alema né Prodi mi hanno mai svelato”. Ne trasse l’impressione, poveretto, ch’egli fosse avvertito come “un corpo estraneo” anche dai politici, come dalla mafia nel 1993, quando sotto il suo primo e unico governo si inseguirono attentati e un misterioso isolamento telefonico notturno di Palazzo Chigi che gli aveva fatto temere addirittura un colpo di Stato.
Ma pure “l’incarico” di cui Ciampi parla raccontando della crisi del primo governo Prodi fu una cosa assai curiosa, essendogli stato conferito a voce da D’Alema e mai formalizzato dal Quirinale, dove pure c’era un presidente della Repubblica per niente ostile come Oscar Luigi Scalfaro, che aveva voluto e portato quasi di peso nel 1993 Ciampi dalla guida della Banca d’Italia a quella del governo, dopo il referendum elettorale contro il sistema proporzionale e le dimissioni del primo governo di Giuliano Amato.
Il primo a parlargli di quel curioso incarico fu l’11 ottobre 1998 in una telefonata il vice presidente del Consiglio dimissionario Walter Veltroni. L’indomani si mosse di persona D’Alema, segretario dei Democratici di sinistra, nei quali era confluito in febbraio il Pds-ex Pci fondato nel 1991 da Achille Occhetto.
D’Alema raggiunse Ciampi nella sua casa estiva di Santa Severa per spiegargli come e perché, essendo peraltro ministro uscente del Tesoro, dovesse toccare a lui l’eredità di Prodi, preparare la legge di bilancio e gestire il passaggio dalla lira all’euro, dallo stesso Ciampi fortemente voluto e negoziato con i sospettosi amici tedeschi. Ciampi, senza impensierirsi più di tanto lì per lì del silenzio di Scalfaro, ma magari confortato telefonicamente da qualche collaboratore del presidente al Quirinale, prese tanto sul serio sia Veltroni che D’Alema da sentirsi -parole sue, prese dai diari e dall’intervista ad Arrigo Levi- “mentalmente proiettato sulla squadra dei ministri e sulla linea dei programma”.
Egli si portò appresso questa “proiezione” in un vertice europeo a Lussemburgo pensando di ricevere, di ritorno a Roma, l’incarico formale di presidente del Consiglio incaricato. Ma ebbe soltanto una telefonata da Prodi, che lo informava di prevedere per le ore successive o un reincarico per sé senza alcuna prospettiva di riuscire, e senza neppure poter insistere per il ricorso alle elezioni anticipate, essendo netta la indisponibilità di Scalfaro a sciogliere nuovamente in anticipo le Camere, per la terza volta nel suo mandato, o un incarico a lui, Ciampi. Che, fattosi intanto sospettoso per il prolungato silenzio del Quirinale e intanto anche di D’Alema, scomparso dai radar di Santa Severa, cominciò ad innervosirsi e ad annotare nei suoi diari un “clima confuso e incerto”, e sentori di “manovre”.
Alla fine Scalfaro improvvisò un rapido giro di consultazioni e affidò a Prodi ciò che, secondo un racconto di D’Alema pubblicato nel 2013 da Laterza, lo stesso Prodi dopo un’assemblea di amici a Bologna aveva legittimamente chiesto: un incarico non si capi bene se esplorativo o vero e proprio. Ma, come egli stesso aveva preannunciato a Ciampi, dovette rinunciare abbastanza rapidamente, non essendo disposto a chiedere un soccorso a Cossiga. Che d’altronde era già poco disposto verso di lui per ragioni caratteriali, pur avendo votato già un suo documento di programmazione economica e finanziaria e apprezzato l’avviamento delle procedure per mettere a disposizione della Nato le basi italiane per un intervento armato nei Balcani sconvolti dai conflitti etnici fomentati dalla Serbia.
Ma oltre a diffidare di Prodi, l’ex presidente della Repubblica con i suoi “straccioni di Valmy” non voleva saperne neppure di Ciampi, annunciandolo pubblicamente perché a Scalfaro non saltasse l’idea di convocarlo al Quirinale per l’incarico. In realtà, Cossiga aveva in testa un solo uomo, che era D’Alema, ritenuto più affidabile di tutti per una partecipazione, pur da uomo di sinistra, alla guerra nei Balcani, con i bombardamenti già progettati su Belgrado. E fu proprio al segretario dei Democratici di sinistra che Scalfaro decise di rivolgersi, lasciando di stucco Ciampi. Che già il 14 ottobre, sette giorni prima che D’Alema sciogliesse la riserva e formasse il suo governo, annotò sui suoi diari la volontà di non entrarvi. A fargli cambiare idea con una certa fatica fu Veltroni, con la cui telefonata di soli tre giorni prima era cominciata tutta la storia dell’incarico fantasma.
Fu forse anche o soprattutto per riparare a quel pasticcio che nella primavera successiva proprio Veltroni, nel frattempo subentrato a D’Alema alla segreteria del partito, si mobilitò per trovare in Ciampi il successore di Scalfaro al Quirinale. L’elezione avvenne il 13 maggio 1999 al primo scrutinio, con 707 voti, soffocando nella culla ogni altra candidatura, compresa quella, in verità più mediatica che politica, di Giuliano Amato. Che però subentrò a Ciampi come ministro del Tesoro di D’Alema. Il quale a sua volta procurò a Prodi la presidenza della Commissione europea a Bruxelles.
L’unico a rimetterci nella partita fu l’Ulivo, che non diede più frutti elettorali sufficienti ad evitare nel 2001, sotto la guida improvvisata di Francesco Rutelli, il ritorno di Silvio Berlusconi a Palazzo Chigi per l’intero quinquennio della nuova legislatura.