La qualità dell’aria che respiriamo è compromessa da una serie di inquinanti, tra cui il materiale particolato aerodisperso, ovvero l’insieme delle particelle atmosferiche solide e liquide sospese in aria. Con il termine PM2,5, o particolato fine, si intendono particelle di diametro inferiore o uguale ai 2,5 micrometri (1 micrometro è la millesima parte di 1 millimetro). Il particolato fine si origina durante la combustione, ad esempio nei motori di auto e motoveicoli, negli impianti per la produzione di energia, dalla legna per il riscaldamento domestico, dagli incendi boschivi e in molti processi industriali. Tutti abbiamo la convinzione che questi particolati possano mettere a rischio la nostra salute aumentando i tassi di mortalità per asma, infarto e altre cause. Ma possiamo avere una stima di quanto queste particelle siano davvero pericolose? Possiamo ottenere una valutazione scientifica del rischio in relazione ai livelli di PM2,5?
Sull’ultimo numero del New England Journal of Medicine, una tra le più prestigiose riviste mediche, è stato pubblicato un lavoro che affronta direttamente questo argomento. Lo studio è firmato da Francesca Dominici, un’italiana che lavora al Chan School of Public Health, Biostatistics Department di Harvard, ed è la più estesa analisi di popolazione fino ad ora eseguita in questo campo. Prende in esame l’intera popolazione americana che usufruisce del Medicare (60 milioni di persone), il programma di assicurazione medica governativo. Il periodo considerato è quello compreso tra il 2000 e il 2012. I dati relativi alle malattie e ai decessi dei singoli individui vengono incrociati con quelli dei livelli annuali di PM2,5 misurati dalle stazioni di monitoraggio in tutti gli Stati uniti, e con i dati ottenuti dai satelliti raggiungendo una precisione puntuale definita dai singoli codici postali.
Il risultato è molto chiaro: si potrebbero evitare circa 12,000 morti all’anno riducendo i livelli di PM2,5 di 1 microgrammo per metro cubo di aria al di sotto dei limiti attualmente consentiti che negli Usa è di 12 microgrammi. Al contrario un incremento in PM2.5 di 10 μg per metro cubo sopra i limiti è associato ad un aumento della mortalità del 7,3%. Il rischio di morte è maggiore per gli uomini, i neri e le persone a basso reddito. Anche se non esiste una spiegazione certa di questa maggiore suscettibilità è ipotizzabile che questi gruppi vivano in ambienti più contaminati e/o abbiano minor accesso alle cure mediche.
L’analisi interessa una frazione molto ampia della popolazione americana ed un periodo temporale molto lungo. Inoltre può avvalersi di dati molto sofisticati di monitoraggio. In questo modo il quadro che emerge è una vera e propria fotografia della situazione Americana. Può dirci qualche cosa circa la situazione italiana? Difficile ovviamente estrapolare. Sicuramente la situazione in Italia è più critica in quanto il Valore Limite (VL) annuale di PM2,5 per la protezione della salute umana pari a 25 microgrammi per metro cubo e spesso, almeno in pianura padana questo limite viene superato abbondantemente. Uno spunto di riflessione per i nostri amministratori e politici.
L’inquinamento uccide
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