“Voglia di comunità”. Così la definiva il sociologo polacco Zygmunt Bauman recentemente scomparso. Si tratta della riscoperta del senso di appartenenza ad un preciso gruppo il quale, a sua volta, è legato, o meglio, radicato a un territorio definito. Un sentimento e una propensione che, causa anche la lunga ed estenuante crisi economia, sono tornati a diffondersi in Italia. Nulla di nuovo per il nostro Paese diventato nazione soltanto da poco più di 150 anni e senza mai perdere la predisposizione a raffigurarsi nella dimensione dei comuni, dei borghi, dei “mille campanili”.
In realtà, il Novecento, con il processo di industrializzazione, causa di poderosi flussi migratori verso le grandi città industriali, soprattutto nel nord, e il conseguente svuotamento delle campagne, sembrava l’avesse archiviato sostituendo il territorio con la fabbrica. La globalizzazione, la rivoluzione tecnologica – con il processo di dematerializzazione legato ai nuovi mezzi di comunicazione, al commercio internazionale e ai sistemi di pagamento – e la grande crisi economica e finanziaria hanno spazzato via qualsiasi certezza, hanno rimesso tutto in discussione, hanno fortemente ridimensionato la centralità della fabbrica e, paradossalmente, riscoperto il valore della materialità e della territorialità. Realtà operose nelle quali i protagonisti economici, siano esse imprese, banche o associazioni, tornano, in maniera inedita, a riconoscersi nel legame di comunità. Del resto sono state proprio le Piccole e Medie Imprese, che su questo modello sono plasmate, ad aver retto meglio l’urto della crisi, a mostrarsi le più resilienti e quelle più pronte a riconquistare posizioni fungendo, addirittura, da traino per l’intera economia.
In Italia, ancora oggi, la struttura economica è incentrata prevalentemente sulle PMI, quelle con meno di 250 dipendenti, che realizzano il 70% del valore aggiunto nazionale con l’80% degli occupati complessivi delle aziende. Imprese con rilevanza locale che possono continuare a mantenere elevati livelli di efficienza e di esportazioni in tutto il mondo, proprio grazie a meccanismi virtuosi di relazioni con altre imprese e con le banche del territorio. Imprese e banche legate da relazioni strumentali e certamente dalla necessità del perseguimento di un fine economico comune ma per le quali la massimizzazione del profitto non può considerarsi l’unica mission e la funzione sociale, come la sussidiareità, non sono affatto elementi secondari o trascurabili.
La centralità del territorio, maggiormente evidente nei settori del turismo e dell’agroalimentare nei quali è, a dir poco, obbligata è anche alla base dell’attività di intermediazione del credito popolare. Le Popolari, che intercettano il credito più di ogni altro tipo di banca, investono, nel loro territorio, quanto in esso raccolgono proprio perché inscindibilmente legate al suo progresso e al suo sviluppo. Naturalmente il rapporto che lega queste banche ai territori non ha alcuna connotazione di beneficenza o di compiacenza ma nasce da un reciproco interesse e questo lo rende particolarmente solido e durevole. E se è vero che nessuno spirito filantropico anima gli imprenditori-banchieri, è altrettanto vero che esiste, altro elemento utile a capire la “voglia di comunità”, l’orgoglio di dotare il proprio territorio di una banca vicina alla gente, una banca che da quel territorio non vada e venga alla ricerca del mercato del credito più redditizio, che preservi il territorio, che lo sostenga nei momenti più difficili della congiuntura.
Qualche secolo fa, Aristotele, nello spiegare la natura dell’uomo quale animale sociale aveva usato parole molto chiare: “La comunità esiste per natura ed è anteriore a ciascun individuo”.