E alla fine la tanto strombazzata legge sullo Ius soli slitta all’autunno. Il premier Gentiloni prende atto delle difficoltà politiche a realizzarla, e forse non forza anche a causa di certi sondaggi che ne hanno verificato l’impopolarità presso gli italiani, e rinvia tutto alla ripresa, come nella migliore tradizione italica. Ovviamente, ribadendo che si tratta di una legge giusta, di civiltà.
Ecco, mi soffermerei proprio su questa affermazione, così comune nella retorica politica italiana, soprattutto di sinistra. Che si tratti del riconoscimento giuridico delle coppie di fatto, oppure delle norme sull’eutanasia, o sul femminicidio, o ancora sulla tortura, le leggi proposte non sono mai semplicemente utili, giuste, appropriate, perché risolvono problemi concreti e specifici del momento, ma sono sempre anche una “scelta di civiltà”. Ciò comporta alcune conseguenze.
Prima di tutto, che esse vengono sottratte alla dialettica politica: non si tiene conto né dei rapporti di forza in Parlamento o nella maggioranza (che sullo ius soli i centristi si sarebbero presto sfilati non era difficile prevederlo), né dell’opportunità politica (anche se la legge aveva una sua razionalità, era questo il momento opportuno per farla passare in un’opinione pubblica sempre più spaventata dagli sbarchi in massa di migranti sulle nostre coste?). Senza contare che se la legge proposta è “di civiltà”, il dibattito parlamentare è considerato come un mero ostacolo da superare e non come un sistema per apportare miglioramenti al disegno di legge abbozzato, attraverso il confronto e la dialettica, recependo anche qualcuno delle ragioni degli altri. I quali sono sicuramente in malafede o “malvagi”.
Ed ecco, appunto, la seconda ma non secondaria conseguenza del considerare le leggi proposte come “leggi di civiltà”: la delegittimazione, morale prima che politica, di chi non ritiene giusta la legge in questione. L’idea che viene fatta passare è quella, appunto, di una lotta della civiltà contro la barbarie, della ragione contro la superstizione, del progresso contro la conservazione o addirittura la reazione. Questo messaggio, che un tempo passava con facilità in ampi strati della società e che oggi al massimo può servire da collante identitario della sinistra in crisi, si basa su un meccanismo mentale di stampo illuministico, recepito poi paro paro dalle successive forze socialiste e comuniste; che il progresso sia unidirezionale, sia una sempre maggiore conquista di diritti, che la politica più che risolvere problemi specifici e contestuali deve spianare la strada al progresso.
È un meccanismo mentale in crisi, ma che ancora agisce in modo inconscio nelle menti un po’ di tutti: un modo di ragionare che è proprio di certa modernità e che ha trasformato le nostre menti in modo radicale. Un pensiero ideologico che, messosi alla prova della realtà nel secolo scorso, secolo “di fuoco, ferro e sangue”, impone necessariamente oggi di recuperare un rapporto diverso e più classico con la politica: cioè più laico, secolarizzato pragmatico. Meno ideologico e “teologico”. Che l’Italia sia ancora invischiata in meccanismi mentali superati, e in una concezione della politica dopo tutto ideologica, è, a mio avviso, un momento non inessenziale della sua crisi politica. Non certo la soluzione.