L’indagine appena pubblicata dalla Commissione europea non lascia scampo: in Italia quasi un ragazzo su cinque nella fascia fra i 15 e i 24 anni non studia e non lavora. Di più, neppure cerca un’occupazione, nemmeno s’iscrive a un corso di formazione. È la cosiddetta generazione né-né (né studio, né impiego) che in inglese è chiamata neet e in spagnolo ni-ni, perché il fenomeno travalica ogni frontiera. Ma da noi è più alto che altrove, il 19,9 per cento dei giovani rispetto alla media continentale dell’11,5. Dunque, quasi il doppio di una realtà intollerabile. Intollerabile che nell’Unione ancora alle prese con le ultime – si spera – conseguenze nefaste dell’interminabile crisi economica, proprio coloro che dovrebbero rappresentare la speranza della rinascita siano invece l’emblema in parte (o in buona parte, come nel nostro Paese) delle difficoltà nella ripresa.
Naturalmente, la politica del lavoro è una tipica prerogativa del governo, con le scelte strategiche su come scuotere la produzione, le esportazioni, gli investimenti, così come sul modo per valorizzare il made in Italy, che è il nostro patrimonio universale in campo economico. Se un Paese poco investe nella ricerca e male sostiene le sue eccellenze nel mondo – intese sia come persone di talento, sia come prodotti di alta qualità -, non ci si deve poi stupire delle classifiche di scoraggiamento tra le nuove leve.
Tuttavia, guai a liquidare il problema con la solita auto-consolazione di dare ogni colpa alla politica e ai suoi incompetenti o insensibili esponenti ai vari livelli. Quando un ragazzo su cinque se ne sta con le mani in mano, è doveroso indicare anche le responsabilità della famiglia, della cerchia sociale e di amici, della comunità che non si cura di spronare quel giovane a non arrendersi. Arrendersi, oltretutto, a quindici/vent’anni, una vera e propria bestemmia per una nazione che alla religione del sacrificio ha dedicato la sua stessa esistenza.
Se c’è una virtù da sempre riconosciuta e riconoscibile negli italiani, dalle emigrazioni dell’Ottocento al boom degli anni della ricostruzione, è la capacità di rimboccarsi le maniche proprio quando l’impresa appare impossibile. I nostri figli devono imparare a osare dall’esempio dei padri e dei nonni. Osare nonostante le risorse infime e lo sguardo miope della politica. Osare perché prima o poi, come già insegnava Dante, usciremo e riusciremo a “riveder le stelle”.
(Articolo pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi e tratto dal sito www.federicoguiglia.com)