Skip to main content

Segretezza, pericolo, tecnologia: intervista al comandante delle Forze speciali, Zanelli

“Abbiamo tutti paura: chi deve decidere e chi deve operare. Quando il rischio si alza, aumenta anche la paura e questa va gestita. E’ proibito dare una versione hollywoodiana delle Forze speciali, è falso”. Il generale di Divisione Nicola Zanelli (54 anni, sposato e padre di quattro figli) da un anno è al vertice del Cofs, il Comando interforze per le operazioni delle Forze speciali, che racchiude le élite delle Forze armate. I reparti di Forze speciali sono il 9° Reggimento paracadutisti d’assalto Col Moschin dell’Esercito, il Gruppo operativo incursori (Goi) del Comsubin della Marina, il Gruppo intervento speciale (Gis) dei Carabinieri e il 17° Stormo incursori dell’Aeronautica. Si aggiungono due reparti di Forze per operazioni speciali: il 185° Reggimento Ricognizione e Acquisizione Obiettivi (Rrao) “Folgore” e il 4° Reggimento alpini paracadutisti, i Ranger. Infine, due reparti di supporto sono il 3° Reggimento Elicotteri per Operazioni Speciali (Reos) “Aldebaran” e il 28° reggimento Comunicazioni Operative “Pavia”. Questi quattro reparti sono dell’Esercito. Nel dna delle Forze speciali c’è la riservatezza, ma il mondo cambia, i loro compiti aumentano e un libro recente dello Stato Maggiore della Difesa, “Operazioni speciali”, con splendide foto e testi divulgativi, le fa conoscere un po’ di più. In questa intervista a Formiche.net Zanelli spiega prospettive, problemi e caratteristiche di un comparto sempre più decisivo.

Generale, quante domande vengono presentate per entrare nelle forze speciali?

Le domande degli aspiranti a diventare operatori delle Forze speciali sono, al momento, sufficienti per l’alimentazione dei nostri reparti, ma ancora inferiori alle nostre aspettative. Stiamo infatti vivendo un periodo caratterizzato dalla mutevolezza della minaccia e ciò richiede inevitabilmente una risposta adeguata, che possiamo trovare proprio nel comparto delle Forze speciali e siamo, quindi, interessati a potenziarlo, come è anche ben indicato nel Libro Bianco della Difesa. In questo senso è necessario promuovere la conoscenza e l’attrattiva verso le Forze speciali per ampliare ulteriormente il bacino di selezione, anche perché ci siamo resi conto che oggi i giovani tra i 20 e 26 anni non sono più quelli di qualche decina di anni fa, perché sono disabituati a svolgere attività “outdoor” prolungate nel tempo, come invece accadeva per le generazioni precedenti che erano più propense a sacrificarsi.

In che senso?

Nel senso che non è tanto una questione di prestanza fisica perché generalmente chi si presenta è mediamente allenato. Aborro i fisici palestrati: sono tanto belli quanto poco utili in operazione, con cedimenti a livello cartilagineo e tendineo. Avremmo bisogno più di un mezzofondista che di un body builder. Meglio il piccolo calabrese, silenzioso e allenato a procedere per lunghe distanze senza grandi masse muscolari, rispetto a chi è atleticamente impressionante. L’apparenza inganna. Il nostro addestramento, per esempio, è finalizzato ai tre secondi che determinano il conflitto in un ambiente ristretto. Se entriamo in una stanza, dobbiamo farcela prima del nemico: meccanismi, tecnologie, armi e forma mentis grazie ai quali in due secondi devi sparare uno o due colpi sul bersaglio e in quei due secondi devi prima capire se davanti a te c’è un amico o magari uno “scudo umano” messo lì apposta.

Eppure chi presenta la domanda è già militare da anni e avrà alle spalle diverse missioni. Perché non vuole soffrire?

Non tutti hanno le idee molto chiare sul tipo di impiego delle Forze speciali e questo conferma l’esigenza di dover maggiormente pubblicizzare il comparto. Molti dei militari che si presentano alle selezioni sono ottimi professionisti nei reparti da cui provengono, ma, nonostante ciò, alcuni non possiedono tutti i requisiti necessari per diventare un buon operatore delle Forze speciali. Nelle nostre selezioni cerchiamo di individuare subito chi siamo certi che non ce la farebbe. Per questo il test d’ingresso è particolarmente impegnativo e selettivo: il candidato è sottoposto di proposito a uno stress fisico e psicologico per portarlo al limite delle proprie capacità, lì dove, se manca una forte spinta motivazionale, è difficile poter proseguire. Limitiamo le ore di sonno e li facciamo lavorare di notte per portarli allo stancamento.

Alla fine quanti ne restano?

Negli ultimi tre anni abbiamo selezionato 200 soldati di truppa e sottufficiali, ne sono rimasti 32. Tra questi, qualcuno lo perderemo per motivi personali, perché magari decide di optare per una vita meno rischiosa o anche perché può farsi male in un’operazione o durante un’attività addestrativa. Diciamo che alla fine ne restano 2 su 20, che però ci danno le garanzie di essere i migliori. La selezione è anche tecnica: è capitato di aver dovuto escludere chi era bravissimo in acqua, come parà, al corso di resistenza agli interrogatori, ma non nel tiro e dunque non poteva essere accettato.

Qual è l’età media di ingresso?

Per truppa e sottufficiali è di 24 anni. L’operatore a 38-42 anni raggiunge la maturità ottimale ed è al massimo del rendimento operativo e quasi tutti restano almeno 18-20 anni nel comparto. Per gli ufficiali l’età d’ingresso è un po’ più alta, ma dipende dalla più lunga durata del corso dell’Accademia. Ma, di certo, quello che accomuna tutti gli operatori è che è proibito dare una versione hollywoodiana della nostra professione. Non abbiamo bisogno di “spacconi”, abbiamo tutti paura, chi deve decidere e chi deve operare, la paura va gestita sott’acqua di notte, quando ci si lancia da un elicottero che non si è mai visto prima, quando si deve aprire il fuoco dietro una porta o si deve raggiungere un obiettivo in modo clandestino. Chi non ha paura è pericoloso per sé e per gli altri. Abbiamo i migliori figli d’Italia e altrettanti ce ne sono fuori che non abbiamo convinto, ma sarebbe bello raggiungerli.

Nell’introduzione al libro, il generale Graziano annuncia il potenziamento del comparto, a cominciare dal comando. Come riuscirete a farlo?

La struttura di comando a giorni sarà ampliata del 50 per cento e promuoveremo, dopo valutazione del Cofs, altre unità che entro la fine dell’anno diventeranno “Forze speciali” mentre ora sono “Forze per operazioni speciali”: mi riferisco al 185° Rrao e al 4° Reggimento alpini che da quattro anni stanno addestrandosi nel Comfose (il Comando delle Forze speciali dell’Esercito) e che hanno raggiunto gli standard necessari per coprire le missioni richieste dalla Nato. Per loro non cambierà molto, perché il loro iter formativo è già oggi simile a quello degli operatori delle Forze speciali, ma dottrinalmente cambia il loro impiego perché mi consentirà di utilizzarli per incarichi Nato, inserendoli nel gruppo di forze ad alta prontezza della Nato destinate a compiere le operazioni speciali a supporto delle missioni dell’Alleanza. Per tutto il 2018 il 185° Rrao e i Ranger forniranno alla Nato la disponibilità per conto dell’Italia.

L’ampliamento prevede altre novità?

Una compagnia del Reggimento Carabinieri “Tuscania”, una compagnia del 1° Reggimento “San Marco” della Marina e una compagnia di Supporto terrestre alle Operazioni Speciali (Stos) del 16° Stormo dell’Aeronautica saranno validati dal Cofs e, se supereranno tutti i test, entreranno nel comparto come nuovi reparti per operazioni speciali.

La prevenzione antiterrorismo vi sta coinvolgendo anche sul fronte interno.

Le Forze speciali ora sono validate anche per operazioni controterrorismo nazionali, se richieste dal ministero dell’Interno. In caso di attacco i primi a intervenire sono il Gis e il Nocs della Polizia, ma possono sorgere problemi o addirittura attacchi simultanei e in questo caso il Viminale può chiedere il concorso alla Difesa. Noi siamo il “terzo attore”. Ricordiamo anche che, in base alla legge 198 del 2015, le Forze speciali possono essere di supporto alle missioni dell’Aise: i nostri servizi segreti godono così di forze estremamente preparate, pronte immediatamente a intervenire in qualsiasi ambiente.

Come sono i rapporti con le altre nazioni?

Non lo dico perché sono il comandante, ma abbiamo sempre più visibilità e consensi a livello internazionale. Sulla mia scrivania c’è oggi un videotelefono classificato “segreto” con il quale parlo regolarmente con il generale Raymond A. Thomas, comandante delle Forze speciali statunitensi, così come con tutti gli altri colleghi della Nato; ogni anno si tiene la conferenza dei comandanti delle Forze speciali alleate e l’Italia raccoglie sempre consensi per le operazioni che conduce sul terreno.

In diversi teatri di crisi svolgete un fondamentale compito di addestramento: con i Peshmerga curdi o con gli afghani, per esempio. Quali sono le principali difficoltà?

Il livello tecnico di queste truppe è piuttosto basso, ma troviamo una fierezza che lascia senza parole. Siamo di fronte a gente che magari non sa bene dove sia il confine del loro Paese, ma che è determinata a difendere il proprio villaggio o a riprendersi la propria moschea. Combattenti eccezionali perché la motivazione è determinante nel combattimento. La difficoltà è la lingua, oggi bisognerebbe conoscere soprattutto l’arabo, oltre al farsi o all’urdu. Qualche operatore lo parla, ma c’è il problema dei dialetti, così siamo costretti a ricorrere a interpreti selezionati. Il mio sogno è che le Scuole di lingue estere delle Forze Armate dedichino permanentemente un corso di lingue rare al comparto delle Forze speciali.

Quanto vi aiuta la tecnologia?

E’ una bestia nera per due motivi: non possiamo non essere aggiornati perché il nemico si aggiorna; inoltre la tecnologia va a una velocità tale che, per esempio, il minidrone che potremmo acquisire ora, l’anno prossimo sarà vecchio e dopo due anni dovrà essere completamente rinnovato. La tecnologia fa spendere molto e i bilanci sono quelli che sono. Guai però a non mantenersi aggiornati. La prossima guerra si combatterà contro il visore notturno: bisogna adottare tutto quello che c’è per non essere visti dai vari visori che possono essere termici, radar, a infrarossi, a ultravioletti, magneto-tellurici eccetera.

Generale, quale fu la molla per cui da giovane ufficiale volle entrare a tutti i costi nel Col Moschin?

Ero amante degli sport, da giovane ho fatto di tutto.

Bastasse quello…

Era sufficiente vedere che cosa si praticava entrando nel 9°: canoa, paracadutismo, sub, tiri, esplosivi, corsi di roccia, sci ed eri pure pagato… Non ho avuto dubbi. Il giorno più felice fu il 22 dicembre 1986 quando scoprii che mi avevano assegnato proprio lì. Per nove mesi non ho visto familiari, ero un giovane tenente e avevo otto sergenti che volevano farmi arrivare sempre ultimo, quindi mi imposi di arrivare almeno terzo in ogni prova: se sei l’ultimo non puoi dare ordini. Per esempio, al corso da sub bisognava fare il giro a nuoto dell’isola Palmaria. Arrivai secondo dietro a un sergente che non sapeva nuotare all’inizio del corso e tuttora è al Col Moschin: è un luogotenente di 53 anni, ma non le consiglio di sfidarlo in nessun campo.

Stia tranquillo, non è in programma. Lei poi è stato comandante del Col Moschin, ha costituito il Comfose, oggi comanda il Cfos e, a dispetto della riservatezza del suo lavoro, il libro sulle Operazioni speciali la costringe ad apparire.

E’ vero, mi dà un po’ fastidio apparire perché non credo sia necessario ricercare la notorietà. Non dobbiamo divulgare più del minimo su quello che facciamo perché rischiamo di arrecare un danno, aiutando l’avversario a raccogliere materiale informativo, magari anche attraverso internet. Di norma, accetto di far uscire un’informazione che non è mai più di quello che si può già trovare sulle fonti aperte. In questi termini, sarebbe sciocco fare i riservati.

Qual è il ruolo delle famiglie in un lavoro così particolare?

Sta evolvendo insieme con la società, non ci si sposa subito ma ci si accompagna, magari ci si sposa dopo i 40 anni. Purtroppo, anche l’ambiente delle Forze speciali, al pari di altri, tanto militari quanto civili, sta assistendo ad un incremento delle separazioni: negli ultimi 10 anni abbiamo toccato punte massime anche del 65 per cento. Per la mia generazione la famiglia era invece l’ossatura della società, tuttavia l’assenza del padre e del marito pesa, i miei quattro figli sono stati un “peso” che si è caricata mia moglie sulle spalle e non è tuttora facile. Mi dispiace non averli seguiti come avrei voluto.

Sono orgogliosi del padre?

Penso di sì, sono ancora molto giovani, ma credo di sì…

E’ l’unico momento in cui lo sguardo del duro comandante s’intenerisce.

 

[youtube width=”800″ height=”344″]http://youtu.be/dgxboLFwDLU[/youtube]



×

Iscriviti alla newsletter