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Dopo Lisbona, Bisanzio

Sogno ed aspirazione di tanti europeisti del Novecento, arenatosi in un contraddittorio e farraginoso documento il cui scopo, per dirla tutta, è quello di mettere ordine, senza peraltro riuscirci (se non in minima parte), in una materia magmatica difficile da imbrigliare. Sgombriamo il campo dagli equivoci: non è sinonimo di euroscetticismo la critica alle innovazioni istituzionali contenute nel Trattato di Lisbona. Ma soltanto sano realismo nel valutare la sua insufficienza contenendo esso soltanto disposizioni di principio che consentono varie opzioni attuative, nessuna, tra quelle prospettate, soddisfacente e da tutti condivisa peraltro.

Sicché l’Europa, dopo la ratifica del Trattato, si è maggiormente burocratizzata e si è ulteriormente impoverita dal punto di vista politico, poiché le sue istituzioni, i suoi organi di governo non soltanto non hanno legittimazione popolare, ma sono estranei, sconosciuti, lontani dalle esigenze e dallo spirito delle nazioni europee. Basta dare uno sguardo alla formazione delle figure “apicali” dell’Unione – dal presidente del Consiglio europeo (pomposamente e ridicolmente definito da qualcuno il “presidente dell’Europa”) al presidente della Commissione europea, all’Alto rappresentante per la politica estera e di sicurezza – per rendersi conto che esse sono prive di legittimazione democratica, che assommano responsabilità e ruoli che finiscono per sovrapporsi o elidersi, che possono entrare in conflitto di fronte a qualsiasi emergenza. E difatti, nei documenti ufficiali che accompagnano la descrizione di questi vertici, ci si imbatte spesso in dubbi come quello che riguarda l’Alto rappresentante sul quale in molti hanno manifestato le perplessità, se non contrarietà.

Sulla base di una lettura non arbitraria, ma autorizzata dallo stesso documento istitutivo, infatti, l’Alto commissario risulta dotato di un duplice ruolo istituzionale, in quanto vice-presidente (insieme ad altri) della Commissione, presidente del Consiglio degli affari esteri e responsabile della direzione della politica estera e di sicurezza comune e del coordinamento di tutte le relazioni esterne dell’Unione. Questa figura, incarnata al momento dalla britannica  Catherine Ashton, già Commissario europeo per il commercio estero, entrerà o no prima o poi in rotta di collisione con il presidente del Consiglio europeo (il belga Herman van Rompuy, fino alla nomina primo ministro del governo del suo Paese), eletto per due anni e mezzo dal Consiglio europeo e che, dunque, non sarà più il capo dell’esecutivo dello Stato che esercita la presidenza dell’Unione, e con il presidente della Commissione europea (il riconfermato Manuel Barroso), che continua a svolgere le funzioni di un vero e proprio primo ministro dell’Europa? E la presidenza semestrale che fine farà posto che sulla carta figura ancora come uno degli organi-cardine dell’Unione anche se le prerogative del primo ministro del Paese in carica sono sostanzialmente azzerate? Alto rappresentante, presidente del Consiglio europeo, presidente della Commissione, presidenza semestrale dell’Unione sono entità se non proprio “astratte” nella percezione dei pochissimi europei che ne hanno contezza, quantomeno disarmoniche e di difficile collocazione nel quadro di una “casa comune” europea che smania per allargarsi fino ai confini del mondo, probabilmente, stando alle dichiarazioni “futuriste” di numerosi autorevoli membri dell’Unione i quali, irresponsabilmente, alimentano le speranze di tanti aspiranti che non hanno la benché minima possibilità di ingresso se restano fermi i parametri di Maastricht.

Se poi si pone attenzione al funzionamento degli organismi “apicali” citati (a cui molti altri, meno importanti, ma tuttavia essenziali andrebbero aggiunti), si ha l’impressione di una babele politica che s’impantanerà inevitabilmente nell’indecisionismo o nel basso compromesso, accontentando sempre qualcuno ed inimicandosi di conseguenza gli Stati nazionali che si sentiranno trascurati, i quali, essi sì legittimati dal consenso, non potranno sottrarsi alle loro responsabilità in merito a conflitti bellici (i Balcani, nell’indifferenza generale, stanno nuovamente esplodendo, solo per fare un esempio), crisi regionali, terrorismo, contrasti economico-finanziari (i Paesi più deboli come reggeranno di fronte agli esiti della disoccupazione e del calo del potere d’acquisto che ha seminato il panico anche tra quelli più dotati dell’Unione?).

Allora non ci sarà organismo, per quanto ben strutturato, e quelli citati non lo sono, che potrà difendere questa Europa che, tra l’altro, non ha ancora definito le competenze ed il ruolo da assegnare al capo del governo che detiene la presidenza di turno dell’Europa. Sicché quando nel prossimo mese di giugno la Spagna passerà la mano, lo Stato subentrante non saprà davvero come regolarsi nello svolgimento del ruolo che finora è stato di guida politica dell’Unione. Per carità di patria non approfondiamo i rapporti legislativi tra Parlamento e Commissione: un altro rompicapo. Basta dire che il Trattato di Lisbona, innovando eccentricamente una prassi consolidata presso tutti i Paesi democratici nei quali è prevista l’iniziativa legislativa popolare, invece di prevedere che un milione di cittadini, “provenienti da un rilevante numero di Stati membri” (l’indeterminatezza è uno dei dati caratteristici del singolare documento fondativo dell’Euro¬pa), si rivolga al solo organo legislativo, vale a dire il Parlamento europeo, impone che  la proposta venga indirizzata alla Commissione la quale poi si rivolgerà formalmente (e se lo riterrà opportuno) al Parlamento.

Le condizioni e le procedure per l’esercizio dell’iniziativa popolare, incluso il numero minimo di Stati membri cui devono appartenere i cittadini promotori dovranno – naturalmente – essere disciplinate in un regolamento adottato dal Parlamento europeo e dal Consiglio. Non è il caso di soffermarci sulle varie proposte che, secondo quanto stabilito avrebbero già dovuto essere discusse ed approvate, ma non se ne sa niente, per concludere che anche dal punto di vista normativo si naviga a vista e nella più totale incertezza.

E ciò è tanto più grave in quanto il Trattato,  introducendo la gerarchia tra le norme giuridiche e ribadendo la distinzione tra atti di natura legislativa, atti delegati ed atti di esecuzione, conferisce soltanto agli atti giuridici adottati mediante procedura legislativa (ordinaria o speciale) la qualità di “atti legislativi” e quindi il posto preminente tra le fonti. Questioni di lana caprina? Neppure per sogno. Soltanto gli atti legislativi possono delegare alla Commissione il potere di adottare atti non legislativi di portata generale, sotto forma di regolamenti.  Il potere in Europa, dopo averci girato tanto intorno, resta dunque saldamente nelle mani della Commissione. La quale insieme con l’Alto commissario e l’imprecisato presidente del Consiglio europeo formano un’oligarchia che mal si concilia con l’esigenza di partecipazione del popolo, delle nazioni e degli Stati all’organizzazione della governance dell’Europa. Era inevitabile. Lo avevano paventato europeisti di valori che oggi, se assistessero allo scempio dell’idea di Europa, tradottasi in un alibi per rendere accettabili burocrazie pletoriche, resterebbero inorriditi. Inutile chiedersi a questo punto se è stato giusto o meno ratificare il Trattato.

Meglio di niente si risponderà. A patto che si convenga che l’Europa non è (ancora) un’entità politica, ma un’area di libero scambio. Sempre meno libero, se si considerano le restrizioni imposte dalle congiunture e le diffidenze degli Stati membri. C’è ancora molto da fare, insomma, perché il Vecchio Continente diventi un’unità di destino, dall’Atlantico agli Urali e dal Mare del Nord al Mediterraneo. Una comunità di popoli che dovrebbe, come diceva Robert Schumann, riconoscersi in una cultura autenticamente europea – e quindi plurale, ma fondata sul¬le tradizioni di popoli che hanno intrecciato le loro storie nel corso dei millenni – su cui costruire una grande ambiziosa “nazione”. Le nebbie, purtroppo, sono ancora troppo fitte per intravederla.


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