Dal 1948 per la prima volta nel nuovo Parlamento la destra non avrà una rappresentanza unitaria. E le diverse componenti che ad essa, sia pur nominalmente, si richiameranno faticheremo a definirle “di destra”. Probabilmente non se ne sentirà la mancanza, posto che negli ultimi anni essa quasi non c’è stata nelle istituzioni rappresentative, in quelle culturali, nel dibattito “ideologico” e neppure tra la gente. È come se si fosse spenta, giorno dopo giorno, inavvertitamente. Risucchiata dal berlusconismo da un lato e devastata dal correntismo ereditato da Alleanza nazionale dall’altro. Fini ci ha messo tutto il suo impegno per demolire le residue speranze di una ricomposizione che pure fino alla costituzione del Pdl legittimamente si nutrivano. Poi è calato il silenzio. E la destra è sparita. Con il dolore nascosto e represso di tanti che non se la sono sentita di chiedersi se non valeva almeno la pena tentare di tenere in vita un soggetto politico la cui storia è stata tutt’altro che ignobile in questo lunghissimo dopoguerra.
Eppure a conti fatti, la destra esiste. I numeri sono eloquenti. Dall’ultimo sondaggio disponibile, pubblicato il 27 gennaio da Renato Mannheimer sul Corriere della sera, risulta che sommando le percentuali de La Destra di Storace (1,8), Fratelli d’Italia (1,5), Fli (1) ed aggiungendole al presumibile 6% che vale la destra nel Pdl (Matteoli, Gasparri, Alemanno, nonostante la mattanza di cui è stata oggetto nella compilazione delle liste) e tenendo pure conto, ma senza quantificarlo, il valore complessivo dei tanti che non aderiscono a nessuna componente, ma che rappresentano comunque qualcosa in termini elettorali (oltre che politici), aritmeticamente la destra assommerebbe ancora a circa il 10%.
Si dirà che in politica calcoli del genere sono impropri. D’accordo. Ma bisogna pure aggiungere che se non è corretto quantificare, lo è, al contrario, qualificare. Ed allora ricordando pure le differenze esistenti nella destra che abbiamo conosciuto, almeno nella sua forma ultima più compiuta, vale a dire Alleanza nazionale, non si può che concludere che essa per quanto “plurale” e dunque “vitale” è stata indiscutibilmente – e così ancora è rilevabile – un movimento diffuso la cui scomposizione risulta incomprensibile a meno di non volerla attribuire, correttamente, a diffidenze e a vere e proprie inimicizie cresciute nel corso del tempo soprattutto tra “colonnelli” che non hanno trovato la capacità della “sintesi” in un “federatore” delle diverse esigenze politiche e delle differenti posizioni culturali.
Poteva e doveva essere Fini ad incarnare una tale figura, ma per motivi che ancora oggi ci sfuggono ha preferito, con la complicità di quelli che erano i suoi più stretti collaboratori, annegare l’identità della destra nell’indistinto berlusconismo per poi fuoriuscirne, senza un progetto oltretutto, non appena resosi conto dell’inagibilità poltica nel compiere un percorso virtuoso in un soggetto a dimensione monarchica con qualche concessione all’oligarchismo.
La destra, dunque, si è perduta per non aver più creduto in se stessa; per aver abbandonato la sua connotazione riformista e conservatrice; per essersi illusa che il “partito unico” potesse davvero nascere sul predellino di un’automobile e non da una discussione seria ed approfondita, per di più quando già soffiavano i venti dell’antipolitica contrari al radicamento del bipolarismo.
La balcanizzazione della destra non implica tuttavia il suo definitivo tramonto. Dopo le elezioni si dovrà pure riprendere una discussione sulla crisi del sistema dei partiti e sulle conseguenze di una politica ricca di parole e povera di idee. Deve esserci lo spazio per la costituzione di un movimento che non sia populista, ma popolare e nazionale; che realisticamente si batta per il primato della politica contro le sue degenerazioni burocratiche e tecnocratiche; che faccia della questione identitaria e sovranista il centro della sua azione avendo di vista un modello di Stato decisionista e di democrazia partecipativa; che creda nell’Europa dei popoli, delle patrie, delle culture più di quanto possano crederlo coloro che si sono votati a farsi strumenti di un’Unione continentale dominata dalla finanza che nega l’economia reale; che metta la persona al centro di una Big society fondata sul riconoscimento dei cosiddetti corpi intermedi.
Si potrà anche non definire di “destra” tutto questo (ed altro ancora) in virtù di un “nuovismo” che scredita ogni cosa senza avanzare proposte sostitutive, ma restano i principi che valgono a circoscrivere un ambito ideologico. Se ciò che per comodità, dunque, chiamiamo ancora destra – ma più correttamente dovremmo definire conservatorismo dinamico o “sociale”, per dirla con Robert Nisbet, il più grande teorico del moderno comunitarismo – sarà una necessità ideale e culturale a rinnovarla, quanto più la crisi economica s’intreccerà con quella politica dando vita ad un grande shock. Ed allora, credo, che anche i numeri torneranno, mentre nella pattumiera della storia finiranno velleità e furbizie. Un’altra destra è possibile, non foss’altro perché le radici profonde non gelano, come diceva J.R.R. Tolkien.