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Cosa si dice in Russia delle sanzioni Usa

israele, VLADIMIR PUTIN

Che il meccanismo delle sanzioni sia usato adesso per stabilire margini nuovi negli scambi con la Russia si capisce dalle proteste che lentamente si levano anche a Bruxelles, in palazzi in cui la comprensione per gli interessi del Cremlino non è mai stata troppo alta. La Commissione ha fatto sapere di essere pronta a “contromisure” verso gli Stati Uniti e il motivo è semplice: ora in pericolo ci sono soprattutto gli affari dell’Europa. Vedi per esempio la Germania e il progetto Nord Stream 2, a rischio per la linea della Casa Bianca e per le proteste della Polonia e dei paesi baltici (e difatti i tedeschi sono quelli che usano i toni più duri nel confronto con Trump).

I quotidiani russi non hanno impiegato molto a cogliere questo particolare. Così molti mostrano oggi uno spirito europeista che pareva morto e sepolto da tempo: la Vecchia Europa si ribella alle sanzioni, ha scritto per esempio Pravda. Ma l’economia è soltanto una parte della faccenda. Mentre la maggior parte della stampa in Italia era intenta a raccontare il muro al confine con il Messico o le ultime novità sull’inchiesta del Russiagate, l’Amministrazione Trump ha mosso tre grossi blocchi di pietra che hanno retto sinora le relazioni militari fra Mosca e Washington.

Blocco numero uno: a febbraio il capo della Casa Bianca ha di fatto bloccato l’intesa sulla riduzione degli armamenti nucleari che gli aveva lasciato sulla scrivania il suo predecessore, Barack Obama (“è un cattivo accordo per gli americani”, ha detto Trump nel primo colloquio telefonico con Putin). Blocco numero due: il Congresso sta spingendo perché il Pentagono riprenda a sviluppare missili a medio raggio, la cui produzione è bandita dal 1987, quando ancora esisteva l’Unione sovietica, da uno storico patto fra Ronald Reagan e Mikhail Gorbachev. Blocco numero tre: in settimana negli Stati Uniti si è parlato di nuovo di fornire armi all’Ucraina. Un progetto che alcuni think tank hanno lanciato nel 2015 (e che ha avuto Stephen Sestanovich come massimo esponente), una idea talmente radicale da spingere alla cautela persino Barack Obama, che pure ha inserito nel suo doppio mandato un bel po’ di cinismo nella politica estera americana, si pensi alla strategia del “lead from behind” in Libia, oppure all’incremento nell’uso dei droni. Il nuovo muro fra l’Europa e la Russia poggia su queste testate.

Ai più attenti non sarà sfuggito un dettaglio che reputo importante. Estonia, Lettonia, Lituania, Polonia e Ucraina. Cinque paesi, quattro nell’Unione europea, uno impegnato da anni nel tortuoso processo di adesione. L’establishment politico americano li considera a tutti gli effetti un muro di contenimento fra l’Europa e la Russia. E’ stato così con Barack Obama, lo è ancora di più, a mio giudizio, con Donald Trump. Ma fra questi cinque, almeno due sono percepiti come un pericolo per la democrazia in Europa. Da una parte la Polonia con il suo governo illiberale, che ha già ricevuto da Bruxelles un avviso esplicito: trenta giorni di tempo per rivedere la riforma della Giustizia, oppure sanzioni senza precedenti. Qualcuno penserà che l’ultranazionalismo sia un effetto passeggero dovuto al governo conservatore del partito Prawo i Sprawiedliwosc (PiS). Sarà, ma il PiS negli ultimi dodici anni ha vinto due elezioni presidenziali su tre e ha scardinato Platforma Obywatelska (PO) alle politiche del 2015 (il leader di PO, Donald Tusk, ha preferito il posto al Consiglio europeo anziché assistere in patria alla disfatta del partito), quindi non sembra avere grossi problemi di legittimazione. Dall’altra parte l’Ucraina, che è stata al centro di una rivolta violenta nel 2014, affronta ancora la guerra civile, deve superare enormi problemi economici e intanto vede crescere la presenza di esponenti neofascisti nei posti chiave dello stato. Governi controversi, eroi del mondo libero per gli Stati Uniti, bombe a grappolo innescate sotto i sedili della democrazia per i vicini europei.

Ora si potrà pensare che Donald Trump sia responsabile soltanto in parte della piega che la politica estera americana ha assunto negli ultimi mesi. Che il grosso della strategia sia stabilito suo malgrado, attraverso decisioni del Senato e linee guida secolari degli apparati americani. Questa è la tesi che seguono peraltro al Cremlino, come riportano alcuni degli osservatori più attenti (prendete come esempio lo stesso Trenin, che immagina Trump prigionierio di tre grossi conflitti nazionali). Io però terrei in considerazione anche l’analisi resa da Civiltà Cattolica (l’unica seria che ho letto sinora sull’ideologia di Trump). Mi interessa in particolare il passaggio in cui uno dei più stretti collaboratori del presidente, Steve Bannon, è definito senza tanti giri di parole un sostenitore della “geopolitica apocalittica”. Il pezzo ha mandato in visibilio il New York Times, secondo il quale il Vaticano sta usando l’artiglieria per spiegare ai cattolici intransigenti americani, ovvero quelli che hanno votato per Trump alle elezioni, chi sia davvero il loro presidente. Ma neppure la stampa liberal lo ha compreso sino infondo: mentre riempivano pagine su scambi di email e incontri segreti con agenti segreti del Cremlino, su brogli alle elezioni, su influenze anomale e mai dimostrate, Trump e i suoi hanno messo insieme le pietre per uno scontro violento nel centro dell’Europa.

(Brano estratto dalla newsletter settimanale Volga a cura di Luigi De Biase)

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