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Chi sono i 3 economisti italiani finiti sul tetto del mondo (parlando di Berlusconi e Mediaset)

Silvio Berlusconi, guido bertolaso

Ogni anno la prestigiosa American Economic Association, che dal 1885 riunisce gli addetti alla “scienza triste” d’America e non solo, sceglie il miglior paper di economia applicata che sia stato pubblicato negli ultimi 365 giorni. Nel 2017 il premio è stato assegnato a una ricerca scritta da quattro economisti, di cui tre con passaporto e studi in Italia: Stefano DellaVigna (già Bocconi, oggi all’Università della California a Berkeley), Ruben Durante (già Università di Messina, oggi alla Pompeu Fabra di Barcellona) e Eliana La Ferrara (Bocconi), insieme con il collega americano Brian Knight (Brown University). Ma la ricerca è decisamente “italiana” anche per i suoi contenuti, fin dal titolo: “Market-based Lobbying: Evidence from Advertising Spending in Italy”. I tre connazionali – che in apertura di paper non mancano di ringraziare un altro italiano, Tito Boeri (pure lui bocconiano, oggi presidente dell’Inps) – si occupano di lobbying, e lo fanno a partire da quanto accaduto in Italia negli anni del governo Berlusconi, rispolverando un vecchio e mai domo cavallo di battaglia: il conflitto di interessi.

Gli autori teorizzano l’esistenza di un modo di fare lobbying finora poco studiato: “Il lobbying indiretto”. Per “lobbying diretto” s’intende quello praticato dalle aziende che premono sui politici per cambiare delle regole a proprio favore. Poi c’è il lobbying dei “businessman-politician”: in questo caso, a cercare di influenzare o modificare le regole di un certo business sono quei politici che hanno quote rilevanti di aziende private. Ai cultori delle “leggi ad personam” dispiacendo, non è nemmeno questa la pista seguita dai tre economisti italiani per analizzare la parabola di Berlusconi. I ricercatori preferiscono introdurre la fattispecie del “lobbying indiretto”: “Le aziende elargiscono favori ai politici indirettamente, indirizzando gli acquisti delle proprie società in modo tale da avvantaggiare le aziende controllate dal politico”. Nel caso italiano, che secondo gli studiosi ben si presta a un’analisi quantitativa, le aziende italiane avrebbero tentato di ingraziarsi Berlusconi indirizzando su Mediaset una fetta più ampia del proprio budget dedicato ad acquistare spazi pubblicitari.

Lo spazio temporale su cui viene condotto il calcolo coincide con gli anni di Berlusconi al governo (anni di governo che – da economisti – DellaVigna & co. definiscono “30 trimestri di governo”: parliamo della breve parentesi del 1994, poi del quinquennio 2001-2006 e infine del 2008-2009, visto che la ricerca per carenza di dati non si spinge fino al 2011 e alle dimissioni di Berlusconi sull’onda dello spread impazzito). I dati sulla pubblicità sono tratti da due database Nielsen, uno organizzato per settore e uno invece a livello micro che considera le prime 800 società italiane per spesa pubblicitaria. Una volta inseriti questi dati nei modelli matematici, gli economisti concludono che “in linea con le previsioni, la spesa pubblicitaria indirizzata su Mediaset, in confronto a quella indirizzata sulla televisione pubblica, è maggiore nei momenti in cui Berlusconi è al potere. (…) Il risultato è dovuto a un aumento dei prezzi degli slot pubblicitari su Mediaset e a una corrispondente riduzione dei prezzi sulla Rai”. Un altro aspetto che gli economisti sottolineano è che a rimpinguare maggiormente il budget per la pubblicità (da devolvere a Mediaset), quando Berlusconi era a Palazzo Chigi, sono state soprattutto le aziende che si muovevano nei mercati più regolati, quindi più bisognose – o speranzose – di trattamenti di favore in ambito normativo-regolamentare. Parliamo innanzitutto di telecomunicazioni, farmaceutica, media, settore finanziario (le banche) e automotive.

È possibile calcolare il beneficio che Mediaset avrebbe tratto da questa situazione? Gli autori del paper partono da un dato complessivo: “La spesa totale in pubblicità su tutti i media, in Italia, è passata da 3,7 miliardi di euro nel 1993 a 7 miliardi di euro nel 2009. La televisione generalista raccoglie la più ampia fetta di questa pubblicità, circa il 60,5% di tutte le risorse spese sia nel 1993 sia nel 2009”. Poi scendono nel dettaglio dei bilanci di Mediaset e Rai. “Considerato l’impatto stimato sui prezzi (della pubblicità, ndr), calcoliamo che le entrate annuali di Mediaset siano aumentate di 123 milioni di euro e che le entrate annuali della Rai siano diminuite di 22 milioni di euro in ragione del conflitto di interessi. In nove anni di governo Berlusconi, l’effetto cumulato di questo incremento degli incassi dovuto al lobbying indiretto ammonta a 1,1 miliardi di euro, e il calo di incassi per la Rai è pari a 194 milioni di euro”. Ecco “un motivo in più”, scrivono i tre economisti italiani e il loro coautore americano, per mettere in campo norme sul conflitto di interessi come quelle che esistono per il Congresso degli Stati Uniti, con la tradizionale attivazione di un “blind trust” per quei politici che hanno partecipazioni in società private.



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