Sono venezuelana e vivo a Houston da un anno. È da una settimana che sono chiusa in casa per colpa dell’uragano Harvey. Niente scuola per mia figlia. I primi giorni, io e mio marito prendevamo in giro l’isteria collettiva degli americani. Nei supermercati sembrava la fine del mondo. Quando ci siamo ritrovati attaccati alla finestra, pregando perché smettesse di piovere, perché il fiume dietro casa non esondasse, abbiamo capito. Non abbiamo dormito, aspettando il momento di evacuare la casa. Ci siamo trasferiti tutti al secondo piano. Sono abituata, da venezuelana, a situazioni di rischio. Ma Harvey mi ha davvero spaventata. Sono morte 47 persone finora, ma se le due dighe della città si fossero rotte, che dire?… Non vedevamo l’ora che uscisse il sole.
HOUSTON, LA CULLA DEL MELTING POT
Houston è la quarta città più grande degli Stati Uniti. È una delle città con più “melting pot”. La Torre di Babel è presente in ogni angolo.
Trasferirsi qui non è un processo facile per gli immigrati. È tutto nuovo: nuovo ritmo, nuove storie, nuove persone. Non avrei mai pensato di emigrare, ma la crisi venezuelana mi ha fatto cambiare rotta. Ho scelto Houston perché mio marito – che viveva con me a Caracas – è originario di Houston. I suoi genitori, afroamericani di Louisiana e Alabama, sono venuti in questa città quando avevano 20 anni. Mio marito è un americano atipico: è arrivato in America latina attratto dal realismo magico e con la scusa dello spagnolo – e dopo del petrolio – è rimasto in Venezuela per due decenni.
DIFFIDENZA VERSO GLI ALTRI
Penso che, nonostante la varietà, a Houston le persone non si mescolano. Ognuno sta con i suoi simili. Latinos con latinos, afroamericani con afroamericani, asiatici con asiatici, bianchi con bianchi. In Texas le persone sono diffidenti degli altri. Non si fidano e colpevolizzano – discretamente o esplicitamente – l’altro. Il tema del razzismo senza dubbio esiste. Sentire che non tutti ti parlano o di aprono le porte per il colore della pelle o l’accento è una realtà.
IL SUCCESSO DEGLI AMERICANI
Da quando sono arrivata negli Stati Uniti mi chiedo dove sia la chiave del successo di questo Paese. Perché gli Usa sono una potenza. Mio marito passa le giornate avvertendomi che devo muovermi con attenzione, che non posso improvvisare come facevo a Caracas. Poco a poco ho smontato il mito: qui ci sono tante irregolarità e cose che non funzionano come altrove.
UN CARTONE DI LATTE
Harvey però mi ha dato alcuni indizi per rispondere alla mia inquietudine. Vedo una massa di persone che si sta trasformando, come formiche in un formicaio, guidate dall’istinto. Si uniscono e si mettono al lavoro, con un unico obiettivo: salvare la città e il bene comune, aiutarsi l’uno con l’altro. Vedo che in questa situazione di emergenza e vulnerabilità, il colore e la lingua, la cittadinanza e i documenti in regola, non sono più barriere. Bisogna uscire dalla circostanza nella quale ci ha messo la natura. L’individualismo imperante lascia spazio alla società. La mia vicina di casa – che di solito non mi parla, l’avrò vista due volte in un anno – mi ha regalato un cartone di latte. Al mercato stanno razionando i prodotti e lei si è ricordata che abbiamo una figlia piccola. Forse lì, in quel pensiero, c’è la chiave del successo degli americani. L’uragano Harvey, in mezzo al caos e la paura, mi sta mostrando l’altra faccia di questa società.