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Vi spiego perché quelle della Consulta sulla legge elettorale sono lacrime di coccodrillo

mani pulite, legge elettorale

Se sono vere le lacrime, o le preoccupazioni, attribuite agli illustrissimi giudici della Corte costituzionale in un retroscena del Corriere della Sera raccontato qualche giorno fa dal segugio Francesco Verderami, si deve aggirare nel Palazzo della Consulta, che peraltro si affaccia sulla piazza del Quirinale, un coccodrillo. Che speriamo si fermi lì e non si trasferisca nel palazzo dirimpettaio del presidente della Repubblica eludendo la sorveglianza dei Corazzieri.

Di animali nei palazzi romani della politica e del potere ne ha già visti d’altronde l’ex segretario del Pd Pier Luigi Bersani con la metafora della mucca -ricordate?- accasatasi tra l’indifferenza di Matteo Renzi negli uffici e nei corridoi del Nazareno. Ma già prima lo stesso Bersani aveva avvertito la presenza di un tacchino sui tetti della sede del suo partito. E’ stato anche per sfuggire a questa specie di zoo che il poveretto ha preferito andarsene via con altri compagni, fra i quali Massimo D’Alema, e allestire un altro partito in via Zanardelli, a due passi dal Vaticano, da Castel Sant’Angelo e dal Palazzaccio della Corte di Cassazione, al di là del Tevere. Speriamo che non veda o avverta animali anche nella sede del suo nuovo partito e non ne allestisca un altro ancora.

Le lacrime, o preoccupazioni, della Corte costituzionale sono di coccodrillo perché gli illustrissimi giudici piangono di ciò che in fondo hanno fatto loro stessi, se a farli soffrire è la prospettiva di elezioni politiche in primavera con le leggi, diverse per il Senato e per la Camera, che sono in vigore: leggi che proprio loro -ripeto- hanno confezionato lavorando di forbici su quelle approvate dal Parlamento e giunte nella loro sartoria dai tribunali della Repubblica grazie ai ricorsi presentati da chi dubitava della loro costituzionalità.

I giudici della Corte Costituzionale hanno quindi scoperto all’improvviso che le leggi da loro confezionate con le forbici della dottrina produrrebbero un Parlamento ingovernabile, tanto sono diverse l’una dall’altra. Eppure furono proprio loro, consapevoli della necessità di non lasciare vuoti in una materia così delicata e vitale come quella elettorale, ad emettere insieme con le loro sentenze il certificato di immediata applicabilità delle norme tagliate e cucite con le proprie forbici, i propri aghi e i propri fili. Ripeto: immediata applicabilità, anche nel caso quindi in cui le Camere non avessero voluto o saputo o potuto intervenire nuovamente per cambiarle, come sta appunto avvenendo.

Adesso che avvertono non dico l’indifferenza ma la paralisi del Parlamento prodotta dai contrasti fra i vari partiti, e anche al loro interno, in un intreccio torbido di convenienze opposte, i giudici costituzionali piangono e soffrono. Ma soffrono anche con l’apostrofo, nel senso che -a leggere altri retroscena o cronache giornalistiche- non si tirerebbero indietro, morirebbero anzi dalla voglia di intervenire daccapo se altri tribunali, o gli stessi che vi hanno proceduto in passato, tornassero a rivolgersi alla sartoria della Consulta accogliendo nuovi ricorsi di cui già pullulano le cancellerie.

In questo caso i furbetti della politica, a cominciare naturalmente dall’ormai odiatissimo segretario del Pd Matteo Renzi, sospettato di volere lasciare le cose come stanno perché gli farebbero comodo, se la prenderebbero in saccoccia a pochi metri dal traguardo, cioè sulla soglia della fine davvero della legislatura e all’inizio delle procedure per mandare gli italiani alle urne con le regole ancora una volta volute, a quel punto, dalla magistratura. Tale è infatti, sia pur di aulica garanzia, anche quella della Corte Costituzionale, composta per un terzo da giudici eletti dalle Camere, per un altro terzo da giudici nominati dal capo dello Stato e per il resto, come dice l’articolo 135 della Costituzione, da giudici espressi “dalle supreme magistrature ordinaria ed amministrative”.

D’altronde, questa dell’Italia, da parlamentare come la vollero i cosiddetti padri costituenti è diventata da tempo nei fatti una Repubblica giudiziaria. Finirà prima o poi per accorgersene, viste le riflessioni autocritiche alle quali si è abbandonato di recente pensando alle sue esperienze di pubblico ministero -e che pubblico ministero- e di politico, anche Antonio Di Pietro, Tonino per gli amici.

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