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I rischi della grafica digitale nel mondo dei manga

È ormai raro trovare un ragazzo che non sia anche un conoscitore dei “manga”, ovvero i fumetti giapponesi. Mai come oggi nel mondo il Giappone è stato così presente nell’immaginario di un’intera generazione grazie a questa forma d’arte. Eppure a Tokyo e dintorni c’è preoccupazione che qualcosa vada perduto, che il patrimonio di tecniche e cultura dei manga anneghi nella marea della grafica digitale.

Il governo nipponico ha appena lanciato un ampio progetto per formare i “mangaka”, cioè i disegnatori, e i creatori di “anime”, cioè i cartoni animati. Anche se esistono scuole dove si insegnano i manga, in realtà mancano spesso agli insegnanti le competenze pratiche che possano contribuire a formare una nuova generazione di fumettisti al livello di quella di giganti che ancora oggi è in attività. Questo perché il mestiere lo deve insegnare soprattutto chi lo esercita. “Nessun altro che i mangaka conosce e può insegnare questa professione”, ha sostenuto Goro Yamada, il maestro dei manga per bambini, in una conferenza organizzata dal ministero della Cultura a Tokyo.

Un mestiere che non vuol dire saper usare un computer per creare animazioni e disegni complicati e colorati. “I giovani non riescono a diversificare gli eroi e a suddividere la storia in episodi per renderla appassionante: è prima di tutto questo che devono apprendere”, afferma Tetsuya Chiba, creatore di “Ashita no Joe” (“Joe del domani”), un manga del 1968 che ebbe un successo inimmaginabile in occidente e in Italia è arrivato negli anni ’80 in forma di cartone animato col titolo di “Rocky Joe”.

L’ondata dei grandi mangaka s’è prodotta dopo anni in cui, per accumulazione, la potenza espressiva dei manga andava affermandosi in Giappone. “Durante la guerra c’erano il cane Norakuro e dopo la guerra le strisce americane nella stampa quotidiana come Blondie. Dopo sono arrivati i manga di un genere del tutto nuovo , vicine al cinema, di Osamu Tezuka”, uno dei maestri assoluti del genere, autore di “Tetsuwan Atomu” (cioè Astroboy) e Black Jack, dice Monkey Punch, autore di Lupin III.

Una generazione che ha creato dal nulla un’industria che occupa 7mila mangaka, 25mila assistenti i quali lavorano in 400 riviste. Le case editrici di manga sono in Giappone 195 e occupano altri 2mila addetti. Numeri importanti, da industria, ma che si basano su una procedura produttiva assolutamente artigianale.

Tuttavia il settore rischia di essere trasformato profondamente dalla rivoluzione digitale. Una trasformazione, questa, che non necessariamente salverà l’arte dei manga. “Io non conosco un solo mangaka che apra continuamente il suo computer”, spiega Yamada. Certo il computer aiuta, ma i maestri veri lo usano in maniera limitata. Anzi, uno dei grandissimi, Jiro Taniguchi, fa tutto a mano “perché le altre tecniche non le conosce”.

Yamada, che è coinvolto nel progetto, prevede di lanciare un’inchiesta ad ampio raggio per verificare tra i mangaka quanto usino il computer. Restando vincolato a un principio: “L’interesse di un manga è prima di tutto la storia e il modo in cui è sviluppata e presentata”.

Le nuove tecnologie servono in un altro senso. “Grazie a Internet, ci sono ormai nuovi spazi di pubblicazione e questa è una cosa ottima. Offre una possibilità immediata di diffusione ampia”, spiega Monkey Punch.

Il progetto del governo, poi, prende atto anche di un’altra realtà: il fatto che il manga ormai non è più esclusivamente giapponese. E, quindi, la formazione sarà aperta anche ai mangaka che vengono dall’estero.



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