Ma dove stanno i membri permanenti dei coretti a cappella (in genere di voci bianche) pro-Ue? Quelli che “ci vuole più Europa”. Quelli che “l’Ue ce lo chiede”. Quelli che “non possiamo chiamarci fuori”.
Il loro silenzio e la loro latitanza sono particolarmente significativi nel momento in cui la Bce sta predisponendo nuove regole sui crediti inesigibili, sui famigerati non performing loans, che rischiano di farci ancora più male del modo sgangherato in cui si è recepito in Italia il (pur giustissimo) bail in.
Intendiamoci bene. La colpa è nostra sia per le crisi bancarie pregresse, sia per l’accumularsi di quei crediti inesigibili, dovuti all’attitudine di alcune banche al credito facile (agli amici e agli amici degli amici). Naturalmente questo non riguarda tutte le banche: anzi, proprio quelle ben gestite hanno sofferto due volte, una prima volta subendo la concorrenza sleale di altre, e una seconda volta dovendo contribuire al risanamento delle banche saltate.
E – per onestà intellettuale – va detto che è perfettamente ragionevole, dal loro punto di vista, che gli altri paesi siano spaventati dall’Italia: il mix tra il nostro debito pubblico, le banche appesantite dagli npl, e la quantità di titoli di debito sovrano detenuti dalle stesse banche, può essere un detonatore pericolosissimo. Comprensibile, dunque, che gli altri ci mettano nel mirino.
Quel che è incomprensibile (a meno di non prendere in considerazione spiegazioni più dolorose…) è il modo in cui gran parte del nostro establishment (politico, economico, finanziario, mediatico) non sia in grado di capire che in questa lotta tra contrapposti interessi nazionali occorrerebbe anche difendere l’Italia.
Sulle regole Ue abbiamo detto solo signorsì. Sulle modalità dell’unione bancaria abbiamo solo detto signorsì. Sul ministro delle finanze unico (devastante) abbiamo detto solo signorsì. Diremo un altro signorsì?
A questo punto, tanto vale dire chiaramente che siamo sottomessi a Berlino e Parigi, e che siamo nuovamente ridotti a “espressione geografica”.