Non vorrei rimediare, sia pure amichevolmente, il bastone di Giorgio Napolitano in testa ma la sua sortita contro la riforma elettorale in uscita dal Parlamento, salvo incidenti, per l’equivoca illusione che continuerebbe a ingenerare nei cittadini di eleggere il governo, oltre al Parlamento, mi riporta con la memoria storica a un uomo politico per niente di sinistra come lui: Sidney Sonnino. Che, già ministro del Re per la destra ma destinato a diventare anche presidente del Consiglio, lanciò nel 1897 il famoso invito a “tornare allo Statuto”, quello Albertino allora in vigore ma secondo lui disatteso dai governi che ritenevano di dipendere non dal Sovrano, come lo Statuto appunto voleva, ma dal Parlamento, o dai suoi “giochi”, come Sonnino li chiamava assai polemicamente.
“Sidney Napolitano”, lo chiamerebbe Marco Travaglio con quella mania che ha di storpiare i nomi a chi non gli piace, come ha fatto di recente chiamando Forlano il povero Pisapia, responsabile di avere difeso da “ipergarantista” l’ex segretario della Dc Forlani nei processi sul finanziamento illegale dei partiti di 25 anni fa. Ma questa volta -vedrete- il direttore del Fatto Quotidiano, pur avendo da tempo Napolitano in antipatia quanto meno politica, se ne asterrà incassando il contributo che il presidente emerito della Repubblica ha deciso di dare all’opposizione alla riforma elettorale liquidata dal Fatto Quotidiano addirittura come “fascistellum”, gridato in rosso sulla prima pagina anche ieri, al pari del giorno prima.
Se il barone Sonnino reclamava il ritorno allo Statuto Albertino ai suoi tempi in vigore, Napolitano reclama in pratica il rispetto della Costituzione oggi in vigore. Che in effetti non dà al cittadino, per quanti artifici possano essere stati messi nelle leggi elettorali che si sono susseguite dal 1993 in poi, una volta ridimensionato col referendum di quell’anno il sistema proporzionale, il diritto di andare alle urne per “eleggere il governo”, oltre al Parlamento, come dissero i referendari di 24 anni fa. E come Napolitano teme che possa ripetersi adesso col nome del capo del partito o della coalizione ammesso nella scheda elettorale.
L’articolo 92 è stato scritto dai costituenti nel 1947 in modo che più chiaro non potesse essere: “Il Presidente della Repubblica nomina il Presidente del Consiglio dei ministri e, su proposta di questo, i ministri”. I quali non a caso sono obbligati dal successivo articolo 93 a giurare “nelle mani” del capo dello Stato prima di assumere le loro funzioni e di presentarsi alle Camere per il voto di fiducia prescritto dall’articolo ancora successivo.
Ma già nel 1994, quando la legge elettorale che portava il nome latinizzato dell’attuale presidente della Repubblica, Mattarellum, pur non prevedendo ancora nella scheda elettorale, come sarebbe poi accaduto col cosiddetto Porcellum, il nome del candidato delle coalizioni in lizza alla guida del governo, Oscar Luigi Scalfaro al Quirinale si arrese alla logica o fascino, come preferite, del sistema maggioritario. E conferì, sia pure di malavoglia, come tutti sanno, l’incarico di presidente del Consiglio a Silvio Berlusconi, che aveva vinto le elezioni sconfiggendo la coalizione dei progressisti guidata da Achille Occhetto e i centristi raccoltisi attorno a Mario Segni.
A quella logica o fascino del sistema maggioritario, sia pure misto, essendo sopravvissuto il proporzionale per un bel poco col 25 per cento dei seggi parlamentari, si piegarono poi, volentieri o non, lo stesso Scalfaro conferendo nel 1996 la guida di governo a Romano Prodi, leader della coalizione dell’Ulivo premiata dagli elettori; Carlo Azeglio Ciampi nel 2001 facendo tornare a Palazzo Chigi Berlusconi, premiato nelle urne con la sua Casa delle Libertà; Napolitano nel 2006 richiamando a Palazzo Chigi il vincitore delle elezioni Prodi, per quanto sapesse bene quanto precaria fosse la sua coalizione di governo, caduta infatti meno di due anni dopo, e ancora Napolitano nel 2008 nominando, dopo le elezioni anticipate, il governo Berlusconi, ultimo della serie maggioritaria. Poi sopraggiunse la fase più o meno emergenziale, o straordinaria, del governo tecnico di Mario Monti e di quelli delle intese più o meno “larghe” di Enrico Letta, di Mario Renzi e di Paolo Gentiloni, oggi in carica.
Quanto meno dal 1994 al 2008 i presidenti della Repubblica italiana hanno quindi accettato di dividere le prerogative dell’articolo 92 della Cosituzione, rimasto invariato, con i riti più o meno improvvisati e genuini del sistema maggioritario, per quanto -ripeto- misto.
Ma ora il buon Napolitano, forse perché costretto dalla realtà politica, più forte delle ambiguità o contraddizioni delle varie leggi elettorali, a ripristinare più o meno in pieno al Quirinale le prerogative dell’articolo 92 della Costituzione con la formazione del già ricordato governo tecnico di Monti e successivi, ha deciso di impuntarsi. E da presidente emerito della Repubblica, cioè ex, ha posto con la franchezza e la vigoria che non ha perso con l’età il problema di tornare appunto alla Costituzione, come dicevo all’inizio.
Qualcuno ritiene che sia ormai troppo tardi per tornare indietro, per quanto lo scenario politico si sia obiettivamente frantumato ed abbia mostrato di avere sempre più bisogno di quel motore di riserva che è un po’ la figura del presidente della Repubblica, con le sue mediazioni e i suoi strappi, secondo le circostanze, quando si inceppano i rapporti fra i partiti, singolarmente o in coalizione, e nessuno è in grado di uscirne da solo. E l’unica alternativa diventa un ricorso continuo e logorante ad elezioni anticipate.
Qualcun altro ritiene invece che Napolitano abbia fatto bene a farsi sentire, anche a costo di rimanere praticamente inascoltato dal governo e dal presidente della Repubblica di turno.
Una cosa comunque credo che non si possa negare al presidente emerito “Re Giorgio”, come affettuosamente chiamano Napolitano un po’ tutti per la sua lunga e non certo ordinaria esperienza al Quirinale: il gusto della partecipazione alla politica, che è stata ed è ancora la passione della sua vita. Per questo egli merita il rispetto anche di chi può trovarsi in dissenso da lui, e che invece spesso si lascia prendere la mano dalla rozzezza di moda e lo accusa di scemenze come la ricerca ossessionata del potere e persino il golpismo. Scemenze, a dir poco.