Su Bloomberg View, la sezione di editoriali del sito dell’agenzia americana, c’è un articolo firmato “The Editors” – ossia: la linea editoriale – in cui si spiega al presidente americano Donald Trump che i benefici dell’accordo commerciale con la Corea del Sud sono, “economicamente e strategicamente”, notevolmente superiori alle quisquilie da sistemare. Il Korus, questo il nome tecnico dell’intesa in piedi dal 2012 (era Obama), lega Washington e Seul, e dicono i giornalisti e gli analisti della Bloomberg è anche da lì che viene il momento florido dell’economia americana che Trump sta raccontando come un successo della sua presidenza (per esempio, da quando è in piedi, l’esportazione di beni americani in Corea del Sud è cresciuta del 4 per cento). L’accordo commerciale è inoltre un puntello strategico molto importante perché consolida l’alleanza necessaria per un altro dei goal trumpiani: contrastare, sconfiggere, il regime nordcoreano. Il 7 novembre Trump sarà a Seul per un incontro bilaterale con il presidente Moon Jae-in, e la questione commerciale sarà nell’agenda tanto quanto la Bomba di Kim Jong-un.
L’ORA DEL NAFTA
In questi giorni si sta intensificando anche l’attività americana attorno al Nafta, che è un altro accordo simile al Korus – più intriso di politica, però – che lega commercialmente gli Stati Uniti con Canada e Messico. Il rappresentate al Commercio Robert Lighthizer è in piena operatività per il quarto round negoziale con le controparti nordamericane: non sarà quello finale, ma potrebbe essere il decisivo per una svolta definitiva da prendere nel prossimo appuntamento di dicembre (in Messico). La linea americana è di introdurre misure protezionistiche per minare le fondamenta di quello che nel lessico trumpiano è “il peggior deal nella storia del mondo”. Un accordo dell’era Clinton che incarna in sé l’ideologia globalista, da cui Trump dovrebbe ritirare gli Stati Uniti. Il ritiro è dato quasi per certo, sebbene Gary Cohn, l’ex presidente di Goldman Sachs che Trump ha scelto come consigliere economico (area: normalizzatori interni della Casa Bianca), ha chiesto al presidente di ragionarci su e di rimandare la questione a dopo l’approvazione della riforma fiscale. Rischi? In Senato c’è uno spiraglio di maggioranza strettissimo, potrebbero esserci congressisti che per difendere i loro collegi (magari tra quelli più legati al Nafta) si muovano per rivalsa; c’è già il precedente della riforma sanitaria a pesare.
IL PALLINO DEL RITIRO
Il presidente del Council of Foreign Realtions di New York, Richard Haass, la chiama “withdrawl presidency“, la presidenza del ritiro (vedi TPP, accordo di Parigi, Unesco, Iran). Sembra che ritirarsi da tutte quelle intese multilaterali che rappresentano, nero su bianco, la struttura globalista messa in piedi da chi lo ha preceduto sia diventato un pallino di Trump . È una linea molto politica – vedere il caso del Nuke Deal iraniano, su cui non ci sarebbero stati estremi per il risentimento dato che le prove note dicono che gli ayatollah stiano rispettando i patti. Si tratta di posizioni prese per assecondare con forza la visione America First, e per marchiare la differenza con i suoi predecessori democratici e con quelli repubblicani che, secondo una visione tuttora condivisa dall’establishment del partito, hanno proseguito sulla stessa strada internazionalista. Il mondo lo guarda con scetticismo e preoccupazione, Trump però può vantare dalla sua gli elettori che l’hanno scelto anche per questa spinta nazionalista, che comunque in realtà è condivisa (come un sentimento di fondo tenuto a bada da atteggiamenti più educati e diplomatici) anche da coloro che – pure nelle strutture del potere – sentono la necessità di un riequilibrio americano, perché vedono Washington come la parte forte, impegnata, quella che alla fine tira fuori più grane che benefici, in questo genere di intese internazionali.