Ancora oggi è l’icona di una devota comunità di fan sparsi in tutto il pianeta, che si autodefiniscono scherzosamente “dickheads”, gioco di parole basato sul suo cognome che in inglese significa “cazzo”. Fan che hanno aspettato con fanatica trepidazione (come chi scrive) di vedere sullo schermo “Blade Runner 2049”, il sequel di un capolavoro assoluto della cinematografia mondiale. Parliamo di Philip K. Dick, universalmente noto per essere l’autore del romanzo Ma gli androidi sognano le pecore elettriche? (1968), a cui si sono ispirati il film di Ridley Scott e quello di Denis Villeneuve, anch’esso in odore di cult-movie. Come ricorda Anthony Peake nella sua biografia ristampata da Gremese, non avrebbe però fatto in tempo a godersi i riflettori del trionfo, stroncato da un ictus alla vigilia della prima di “Blade Runner” nelle sale americane (25 giugno 1982).
Philip nasce a Chicago il 16 dicembre 1928, all’epoca del proibizionismo e del crollo di Wall Street. Dorothy, la madre, era una accesa femminista. Ted, il padre, un funzionario governativo. Entrambi genitori affettuosi, ma angosciati dalla morte prematura di una figlia per mancanza di denaro e di cure. Dopo il trasferimento della famiglia a Washington, inizia a soffrire di disturbi mentali che gli bloccano perfino la deglutizione. Diagnosticati come una forma di isteria acuta, viene rinchiuso in un collegio per bambini “problematici” che lo rende scorbutico e svogliato nei compiti. Appena undicenne si imbatte però in un libro che avrebbe cambiato il corso della sua vita: Il meraviglioso mago di Oz di L. Frank Baum. Tre anni dopo, il suo interesse per il genere fantasy si trasforma in una vera e propria fissazione per la fantascienza. Nel 1943, insieme all’amico Pat Flannery compone un giornaletto artigianale in cui sono narrate le imprese di un supereroe, Future-Human, spietato cacciatore di criminali. È il battesimo di una avventura letteraria che diventerà mitica.
Conseguito privatamente il diploma di liceo, il giovane Philip si iscrive alla Berkeley High School. Sfibrato da ricorrenti esaurimenti nervosi, è costretto a ricoverarsi in una clinica psichiatrica di San Francisco. Lì entra in contatto per la prima volta con le tesi di Carl Jung sui fenomeni paranormali, che lasceranno un traccia indelebile nei suoi scritti. Alla fine degli anni Quaranta, università come quella di Berkeley erano centri di reclutamento militare e di propaganda contro il comunismo sovietico. Solo due decenni più tardi sarebbe divenuta l’emblema della contestazione studentesca contro l’intervento in Vietnam. Dick rifiuta di arruolarsi e decide di abbandonare l’ateneo californiano.
Pur avendo abbandonato l’università, non smette di studiare da vorace autodidatta: Spinoza, con il suo Deus sive Natura, lo affascina; Kleo Apostolides, una giovane studentessa ultraradicale, con la sua bellezza lo seduce. La sposa senza pensarci due volte. Sarà il primo di cinque matrimoni, da cui avrà tre figli. Nel 1953 vede finalmente la luce un suo racconto breve, Ruug, in cui dà prova di una immaginazione pressoché illimitata. È l’inizio di una produzione di testi memorabili che durerà un trentennio.
Quando non scriveva, leggeva: Flaubert, Joyce, Maupassant, Stendhal, ma anche Wilhem Reich e L. Ron Hubbard, il fondatore di Scientology. La teoria “dianetica” formulata da quest’ultimo, una sorta di disciplina della mente di carattere scientista, appare subito a Dick come grottesca e potenzialmente dannosa. Non esita quindi a ridicolizzarla nella Ruota cosmica (1954), una satira della dottrina esoterica seguita dalla fantomatica e elitaria setta dei bardi. Nel 1955 la “Scott Meredith Literary Agency” pubblica il suo primo romanzo, Lotteria nello spazio, in cui sono anticipati i temi centrali della sua narrativa: il potere precognitivo sfruttato cinicamente dal capo religioso; i dilemmi che pone il libero arbitrio; gli sfuggenti confini tra vero e falso; la concezione del tempo che non scorre ma semplicemente “è”, per cui il futuro già esiste.
Stati Uniti, 1962. La schiavitù è di nuovo legale, i pochi ebrei sopravvissuti si nascondono dietro falsi nomi. Vent’anni prima le potenze dell’Asse hanno vinto la Seconda guerra mondiale. L’Africa è ridotta a un deserto, mentre in Europa i nazisti si preparano a inviare razzi su Marte. In questo scenario da incubo due libri segnano il destino dell’umanità: un testo antichissimo, il millenario I Ching, l’oracolo della saggezza cinese che diffonde la spiritualità orientale nei costumi americani, utilizzato come arma morale di ogni volontà di riscatto. E un misterioso best-seller moderno, che minaccia di sovvertire il Reich hitleriano perché preconizza la sconfitta di Germania e Giappone per mano degli Alleati.
È questa la trama di The Man in the High Castle (1961), conosciuto in Italia anche come La svastisca sul sole. Si tratta della sua opera forse più matura, espressione del più classico dei paradossi dickiani: chi ci dice che la realtà che ci circonda non sia invece una specie di sfondo di cartapesta costruito a nostra immagine e somiglianza? Nelle sue intenzioni, il romanzo doveva fungere da trampolino di lancio verso quella letteratura mainstream a cui l’autore aspirava da tempo. Finì per vincere un premio prestigioso, ma senza cambiare il suo cammino di prolifico scrittore di fantascienza, anche se -insieme ad Isaac Asimov– sicuramente il più geniale del Novecento.
Il messaggio che intendeva tramettere, ossia che “non possiamo essere certi di nulla di ciò che definiamo reale”, viene sviluppato in uno dei suoi romanzi più famosi, Ubik (1969). Incandescente commedia metafisica, tour de force narrativo tra farsa soprannaturale e orrore sfrenato, è ambientato in un pianeta in cui non è mai chiaro quali sono i vivi e quali sono i morti. Quando viene concepito, anche a causa del fallimento del terzo matrimonio, Philip era afflitto da una seria depressione, lenita soltanto dagli allucinogeni e dai dischi dei Rolling Stones.
Rientrato negli Stati Uniti dopo un breve soggiorno in Canada nel 1972, Dick cade in vortice di ossessioni incontrollabili. Si sentiva minacciato da oscure presenze che avvertiva nella sua casa. Si convince che tali presenze erano nunzi di “Valis”, acronimo di “Vasto sistema di intelligenza vivente attiva”. Per lui Valis non era un parto della sua fantasia ma era reale, una sorta di satellite che inviava sulla Terra comunicazioni che attendevano di essere decrittate. E uno dei suoi romanzi più complessi e allusivi si intitola proprio Valis (1981). Come spiega in una lettera al suo agente, il personaggio principale, Horselor Fat, “è il sé psicotico dell’Io narrante [che è lo stesso Dick]. Fat è la psicosi del narratore resa oggettiva; in breve, il narratore si è scisso in due persone e mantiene, per tutto il corso della trama, un punto di vista obiettivo di fronte alla sua psicosi. Il romanzo è l’odissea del narratore volta a esorcizzare la propria psicosi […]”.
Mentre scriveva queste righe, Philip sapeva che la conclusione della sua odissea terrena era imminente. Il 18 febbraio 1982, in un piccolo caseggiato del quartiere messicano di Santa Ana i paramedici lo trovano riverso sul pavimento, privo di sensi e con indosso uno dei suoi vestiti casual preferiti. Un abito poco costoso simbolo di uno stile di vita austero, ma sensibile al dovere della solidarietà verso i più sfortunati, testimoniata dal generoso sostegno finanziario dato a organizzazioni umanitarie quali il “Southern Powerty Law Center”.
All’età di cinquantatré anni, Dick poteva vantare un totale di centoventi racconti brevi e quarantaquattro romanzi. Senza dimenticare quelli saccheggiati dagli studios hollywoodiani, ora fanno parte perfino dei programmi di letteratura inglese della Harvard University, e sono citati in innumerevoli tesi di laurea e di dottorato. Dal critico letterario americano Frederick Jameson è stato paragonato a Dickens e Kafka per il suo agghiacciante umorismo, mentre le sue storie surreali gli hanno fatto guadagnare il soprannome di Salvador Dalì della penna. D’altronde, solo lui poteva plasmare un eroe da una muffa gelatinosa chiamata “Lord Running Clam”, nativa di Ganimede, la luna di Giove.
Spunti fantastici fornitigli da una profonda conoscenza della fisica e della teologia. Umani e androidi, alieni e terrestri, Platone e i vangeli gnostici, Dio e Belzebù: tutti vengono mescolati dalla sua intelligenza vulcanica per disegnare scenari metafisici originalissimi, capaci di stupire e di disorientare deliberatamente il lettore. Notte dopo notte, restava seduto davanti alla tastiera della sua macchina da scrivere, cercando di attingere a quel vasto deposito di allucinazioni che si formava grazie all’assunzione smodata di sostanze psicotrope. Un prodigioso ritmo lavorativo che però non gli impediva di coltivare la sua grande passione per l’altro sesso. Le sue relazioni sentimentali, in particolare con le ragazze dai capelli scuri che trovava assolutamente irresistibili, potevano essere romantiche o tenere, tempestose o violente. In ogni caso, non c’era amante -legittima o adultera- che non fosse attratta dal suo carisma intellettuale e dal suo spiccato senso dell’umorismo.
Dopo la sua morte, il sito “Prophets of science fiction lo definì” un “emarginato paranoico”. Egli si considerava invece un filosofo che scrive romanzi, dove “la realtà è davvero un casino, un casino emozionante. La questione fondamentale per me è: quanto ci spaventa il caos? E quanto ci rende felici l’ordine?”. Difficile rispondere. Comunque, benvenuti nel mondo visionario dell’uomo che ricordava il futuro.