Per l’esperienza che ho acquisito in tanti anni, mi sento in grado di scoprire e denunciare quasi tutte le fake news messe in circolazione in tema di pensioni. E’ più difficile addentrarsi in quelle che da noi circolano a proposito di sistemi in vigore in altri Paesi europei. Prendiamo il caso della Germania: è ormai un luogo comune sostenere che il nostro regime, dopo la cura Fornero, è più rigoroso di quello tedesco. Ho chiesto allora ad un bravo giornalista come Tobias Piller, corrispondente in Italia dell’autorevole FAZ, di spiegarmi sinteticamente le caratteristiche del modello tedesco. Ecco la risposta, alla quale aggiungo alcuni miei commenti.
“In Germania, le pensioni non aumentano con la inflazione, ma con lo sviluppo del salario netto (vuol dire che se aumentano salario lordo e le tasse, l’aumento può anche risultare zero) (è altrettanto vero però che con questa formula le pensioni beneficiano dei miglioramenti dovuti alla produttività, ndr). Negli anni di crisi, i salari netti sono scesi, e per evitare un taglio alle pensioni, c’è stato un aumento pari a zero negli anni 2004, 2005 e 2006. Poi, di nuovo, causa crisi, zero aumento nel 2010. Visto la buona crescita negli ultimi anni, anche dei salari, quest’anno l’aumento è intorno a 5 per cento. In Germania, c’è un limite per i contributi alla pensione, ma anche alla pensione stessa. Al momento, si paga come massimo circa il 19 per cento di 6200 euro, metà il datore di lavoro, metà il dipendente (da noi è il 33%, rispettivamente in misura di due terzi e un terzo, ndr). La pensione massima, per esempio, dopo 40 anni di contributi massimi ammonta a circa 2300 euro. La pensione in Germania è da sempre legata ai contributi. Nel recente passato, il dipendente medio con contributi medi, dopo 45 anni di contributi (ndr) nel 2003 prendeva come pensione 53,3 per cento dell’ultimo stipendio. Nel 2016 è sceso al 47,9 per cento. Previsioni: nel 2020 sarà al 46 per cento, 2030 al 43 per cento. Al momento, si va in pensione a 65 anni e 6 mesi. Ma si può anticipare: chi va in pensione prima, tuttavia, perde lo 0,3 per cento della sua pensione per ogni mese di anticipo. Per un anno di anticipo, 3,6 per cento (da noi una penalizzazione economica molto più modesta introdotta dalla riforma Fornero sulla pensione anticipata, è stata abolita, ndr). I lavoratori precoci ed esposti a lavori usuranti possono andare in pensione a 63 anni, se hanno 45 anni di contributi (si noti, a scanso di equivoci, il requisito contributivo, il cui livello in Italia sarà raggiunto tra qualche decennio, ndr).
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Postare una foto di esponenti dem intenti a seguire, in altri tempi e luoghi, una cerimonia funebre ed affermare che si tratta dell’esequie di Totò Riina è un atto abietto, che merita di essere duramente perseguito a termini di legge.
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Marco Morelli non è solo l’ad del Monte dei Paschi, ma dopo quanto ha ribadito nel coso della sua audizione da parte della Commissione Casini sarebbe il caso di soprannominarlo “l’ultimo giapponese del 4 dicembre”, ovvero il solo che non si è ancora arreso dopo la sconfitta del sol levante della riforma Boschi. Morelli insiste nel dire che l’aumento di capitale – che avrebbe consentito allo Stato di non intervenire – è fallito perché in quel giorno fatidico del “nostro scontento” ha trionfato il No al referendum. Tutto ciò perché gli investitori sono interessati prima di tutto alla stabilità istituzionale del Paese in cui intendono allocare le loro risorse. A mio avviso si tratta di una considerazione non solo non giustificata, ma addirittura arbitraria. Sarebbe stata – semmai – la riforma Boschi a destabilizzare quelle istituzioni che gli italiani conoscono dal 1948 e che non hanno mai impedito a nessuno di investire nel nostro Paese. Ovviamente quando le banche erano amministrate meglio di adesso.
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Andrea Orlando, ministro della giustizia, si è riferito alla lotta dello Stato alla mafia con il linguaggio di una sfida a calcetto. “La mafia non ha vinto – ha affermato – ma non ha nemmeno perso”. Vuol dire che ha pareggiato?