L’ascesa di Mohammed bin Salman, futuro prossimo erede al trono, ha segnato uno sconvolgimento in Arabia Saudita e nella regione, con cambiamenti interni e politiche saudite dirette verso una nuova assertività, con l’obiettivo globale e una immediata ricaduta regionale sul contrasto con l’Iran, l’altra grande potenza dell’area, e l’avvicinamento di chiunque condividesse l’inimicizia con Teheran, per esempio Israele. “Quello a cui stiamo assistendo in Arabia Saudita e nella regione mediorientale è un processo in corso dal 2015, ossia da quando bin Salman ha iniziato a diventare la figura potente che adesso è. Tra le sue priorità c’è stata sempre la volontà di cambiare le carte in tavola e portare a casa una politica estera anti-iraniana, visto che la Repubblica islamica sciita è da quel periodo che ha cominciato ad acquisire sempre più forza”, spiega a Formiche.net Cinzia Bianco, analista esperta di Medio Oriente della Gulf State Analytics (società di Londra che si occupa di consulenza sulla situazione nel Golfo per privati e enti pubblici).
QUANTO FUNZIONA QUESTO PROGETTO?
A questo punto, e con le prime mosse importanti già attivate, la domanda che ci si pone – visti anche i rischi corsi per quello che riguarda la stabilità in quell’area delicatissima di mondo – è: quanto funziona questa strategia estera? “Questa strategia di contrasto all’Iran finora ha avuto più bassi che alti, ma MbS (è l’acronimo del principe, usato dalla stampa internazionale, ndr) non è disposto, in questo momento, a rinunciarci”. Prendiamo un esempio recente, il caso del Libano: che cosa ha voluto fare Riad pressando le dimissioni del primo ministro Saad Hariri? “L’idea probabilmente era farlo dimettere per trasformare il governo di Beirut in un esecutivo controllato da Hezbollah (gruppo politico/militare filo-iraniano che l’Europa e gli Stati Uniti considerano un’organizzazione terroristica, ndr) e mostrare questa enorme criticità agli occhi del mondo. E dunque questo poteva incoraggiare azioni militari, o comunque ostili, da terze parti, magari un attacco molto targhettizato da parte di Israele. Però non è successo, perché, per esempio, gli americani sono andati sulla questione molto divisi, senza creare una policy comune a Washington, e soprattutto c’è stato l’intervento diretto del francese Emmanuel Macron, che ha fatto da game changer con la sua visita lampo a Riad e la mediazione”. Dopo l’ingresso di Parigi nella partita, Hariri è riuscito a lasciare la capitale saudita dove era ospitato sotto ricatto e da cui aveva annunciato le dimissioni, è volato a Parigi per poi rientrare in Libano e rimangiarsi le dimissioni, accettando la proposta del presidente filo-Hezbollah di mettere una pietra sopra all’accaduto.
COSA C’È SUL TAVOLO
“Però la situazione ha fatto emergere la cooperazione saudita in funzione anti-Iran con Israele, che ora sta diventando più pubblica e accettata anche a Riad”, aggiunge Bianco: si tratta di una collaborazione che per il momento è ferma sul piano dell’intelligence – funzionari che si scambiano informazioni sui, tanti, movimenti dell’Iran e dei suoi proxy regionali – però è logico pensare che abbia contenuti strategici di più alto livello. E questo, secondo l’analista, dimostra che la situazione è tutta in divenire: per esempio, in questi giorni MbS sta affrontando anche la questione del dopoguerra in Siria, e ha creato apertura con la Russia – martedì c’è stata una telefonata col presidente Vladimir Putin appena dopo un incontro ufficiale di Mosca col rais siriano. Riad cerca di spingere una soluzione simil-federale, dove l’est sunnita del paese preservi una qualche autonomia rispetto al governo centrale, assadista (e dunque alawita, sciita, ideologicamente vicino a Teheran, politicamente di fatto controllato). Questo genere di opzione non piace affatto all’Iran, che a differenza dei sauditi che avevano appoggiato i ribelli, in Siria ha sostenuto il regime che ha schiacciato la rivolta e dunque guadagnato un credito col sangue dei suoi combattenti (sono molti diversi soldati regolari, ma soprattutto gli ayatollah hanno difeso Bashar el Assad e movimentato le decine di milizie sciite che controllano in Iraq, Libano, Afghanistan, per puntellare il regime). E questo è uno dei principali aspetti che ha consolidato la posizione iraniana nella regione. “Un punto centrale è che in tutto quello che MbS fa c’è un tentativo di provocazione nei confronti dell’Iran – aggiunge Bianco – perché non dimentichiamoci che entro il 18 gennaio il Congresso americano dovrà decidere se mantenere gli Stati Uniti all’interno del Nuke Deal: tendenzialmente i congressisti vorrebbero mantenere l’American nel patto, ma se Teheran dovesse reagire alle provocazioni saudite con atti d’aggressione allora la decisione potrebbe cambiare. Almeno a Riad la pensano così”.