Sono arrivato a Beirut mercoledì sera, in tempo dunque per sentire il primo colpo di cannone, stando almeno a quella che secondo i migliori analisti italiani doveva essere la nuova scena politica mediorientale, l’estensione libanese del tragico conflitto siriano. Ho trovato uno scenario assai diverso, con il primo ministro libanese dimissionario, Saad Hariri, che non si è dimesso, forse lo farà, forse no, ma il capo dello stato ha accettato di chiedere ai partiti, come Hariri ha richiesto, se loro condividono la politica ufficiale del Paese, che lo dissocia da tutti i conflitti regionali.
Risposta non semplice, dal momento che un partito libanese, cruciale nel governo, Hezbollah, è coinvolto in tutti i conflitti regionali, sebbene neghi di essere militarmente attivo in Yemen. Così quella che ho trovato a Beirut è un’apparente popolarità trasversale di Hariri, tra chi ieri lo amava più per necessità che per virtù e chi lo riteneva un partner utile, modello usa e getta. La sua apparente popolarità è il prodotto di un incubo mai superato, lo spettro di una nuova guerra civile. Così il suo ritorno è piaciuto a tutti, perché vi hanno visto il ritorno a quella normalità che non esiste ma che tutti vogliono preservare almeno nell’apparenza, o nella forma del vivere quotidiano.
“Ma la gente ha detto anche ‘come si permettono a Riad di umiliarci in questo modo? E questo è positivo, perché è una reazione libanese, non settaria, o confessionale, e in un Medio Oriente dove è rimasto solo il confessionalismo questo è importante”, osserva il professor Antoine Courban, docente alla Saint Joseph University. Così il Libano si ritrova a discutere, e questo è un bene, ma di un problema più grande di se stesso, e questo non lo è. Discute infatti di come convivere con un solo soggetto armato dentro casa, e che quelle armi le usa anche all’estero, facendo dunque lui la politica estera del Libano.E compiendo scelte che possono riguardare tutti i libanesi. “Se l’obiettivo è disarmare Hezbollah la risposta è no”, ha subito chiarito da Tehran il capo dei Pasdaran, Ali Jafaari. Discorso chiuso? No, discorso aperto, perché 27 anni dopo la fine della guerra civile, che segnò il giorno d’inizio di un’epoca in cui Hezbollah sarebbe rimasta la sola milizia confessionale armata in Libano, nessuno si illude che il Libano possa affrontare questa anomalia da solo.
Con la sintesi ironica e sagace che lo contraddistingue Sami Nader, direttore del Levant Institute for Strategic Affairs, riassume il punto così: “C’è un elefante nella stanza. Hariri chiede di dirlo, ma chi può risolvere il problema?” La questione è regionale, non più libanese. Ma evidenziare il problema significa inserirlo nel grande negoziato. Sami Nader spiega il punto così:”ai tempi dell’amministrazione Obama il mantra era “separare”. Unire i problemi, nucleare, milizie filo iraniane e armamenti dell’Iran avrebbe reso impossibile risolvere i problemi.Meglio affrontarne uno alla volta, e si è arrivati all’accordo sul nucleare. Gli avversari dell’Iran però vedono in questo un doppio vantaggio per Tehran; normalizza i suoi rapporti internazionali e prosegue il suo espansionismo nel mondo arabo, da Beirut a Baghdad. Eccoci alla ricerca di un nuovo approccio.”
Nel suo ragionamento non è detto che questo approccio sia per forza militare, perché questa guerra (impossibile parlare a lungo termine) sta finendo in Siria, in Iraq, e la soluzione del conflitto siriano avrà un valore metodologico regionale. Si parte dal dato di fatto che Assad ha vinto, una vittoria che Saad Kiwan, direttore del giornale on line “libanese quora” definisce così: “Recentemente Assad è andato da Putin, ma come? Da solo, a bordo di un volo cargo militare. Lui ha vinto, ma i gradi che ha sono quelli del proconsole.”
Non distante da questa visione Sami Nader osserva che nelle ore in cui a Sochi si definiva l’agenda negoziale per ” la pace in Siria e per tutti i popoli siriani”, tracciando la strada per una passaggio epocale in Siria, dallo Stato centralista a una Repubblica Federale, a Riad gli oppositori di Assad riuniti dai sauditi, pur chiedendo ovviamente la rimozione di Assad, parlavano di Siria patria di tante culture e civiltà, segnando la rottura con il tradizionale discorso sunnita di una Siria culla di una sola identità e cultura, quella dei califfi omayyadi (cioè sunniti). È questo il punto politico a suo avviso: “Comincia qui una nuova storia, che dovrà chiarire i rapporti reali tra le potenze vincitrici, Russia e Iran. L’ Iran sa bene che da solo non riusciva a vincere: Hezbollah, Pasdaran e milizie irachene non bastavano. È stato l’intervento russo a decidere. Ora il Cremlino come si rapporterà con le ambizioni di Teheran? il corridoio terrestre che lega Teheran a Beirut attraverso territori tutti controllati da sciiti può essere tagliato in ogni momento….oggi dagli stessi americani, se volessero.”
Le carte dunque le dà il Cremlino, che ha buoni rapporti anche con i sauditi. “Non mi sorprenderebbe se il federalismo prospettato a Sochi in Siria significasse disarticolazione anche della sicurezza. Con aree di protezione per i vari soggetti, etnici e religiosi. E questo federalismo disarticolato, ancora vago, potrebbe arrivare anche in Libano. Hezbollah vuole le sue armi? Ok, le tenga, ma nel suo cantone. Potrebbe essere questo lo schema post-statuale del domani.E qui entra in gioco l’altro grande sparigliatore, Mbs, Mohammad bin Salman. Lui ha davvero rotto con il tradizionale discorso saudita. Un autorevole esponente di quel Paese mi ha detto che appeasement oggi si traduce così: accettare di essere uccisi per ultimi. Ecco che il progetto è modernizzare, chiuderla lì con la stato religioso, puntare su un patto generazione, capovolgere le priorità. E quelle all’orizzonte sono rivoluzioni epocali, non improvvisazioni.” (Segue)