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Germania, le sfide di Schulz e il vero stato dell’economia tedesca

Schulz, germania, Saarland

La foto di Her Martin Schulz, il capo dei socialdemocratici tedeschi, con il pettorale che reca le insegna del sindacato, in una manifestazione operaia, è stata più evocativa di qualsiasi testo d’economia. Mostra un barlume di resipiscenza dopo anni trascorsi a fare da stampella ad Angela Merkel ed averne subito il fascino poco discreto. Colpa grave, come si è visto nelle ultime elezioni in cui l’Spd ha subito il più duro tracollo della sua lunga storia. Milioni di voti che sono stati ceduti all’estrema destra di AfD, capace, con i suoi falsi bersagli, di canalizzare l’ira dei perdenti. Gli sconfitti della globalizzazione. Oppure destinati ad ingrossare le fila dell’astensionismo. Non solo un fenomeno tedesco, di cui sarà bene avere memoria quando, nella prossima primavera, gli italiani saranno chiamati alle urne.

Probabilmente, dopo l’appello del Presidente della Repubblica, Frank-Walter Steinmeier, si tornerà alla Große Koalition, quale unica alternativa possibile ad un nuovo bagno elettorale, che sarebbe la certificazione di una crisi senza sbocchi. Con le forze politiche in campo, senza l’Spd, incapaci di garantire un minimo di progetto comune. Troppo forti e divaricanti le rispettive posizioni politiche. Il rigore liberale da un lato, la mitezza dei verdi dall’altro. Il diavolo e l’acqua santa. Ma anche qualora l’Spd dovesse tornare sui suoi passi, dopo aver annunciato il passaggio all’opposizione, per dare nuova linfa al movimento, nulla sarà come prima. Non avremmo, pena il suo definitivo suicidio, un’Angela Merkel padrona assoluta della scena. Soprattutto un programma politico che sia la semplice fotocopia degli anni appena trascorsi.

L’Spd deve, quindi, ritrovare la sua strada. Rimanere fedele a quel compromesso, tra capitale e lavoro, che, da sempre, è iscritto nel suo Dna. Ma che i lunghi anni trascorsi a fianco di Frau Angela avevano riposto in soffitta. Dando la possibilità agli animal spirits del capitalismo tedesco di trasformarsi in squali famelici, capaci di ridurre la vecchia idea di un “economia sociale di mercato” ad un’immagine solo retorica. Quello scambio – maggiore produttività aziendale a parità di salario contro strutture del welfare sempre più protettive – era stato alterato dalle riforme di Peter Hartz: l’uomo ex Volkswagen che, per conto di Gerhard Schröder, il teorico della “terza via” tedesca, aveva cambiato, in modo radicale, le regole del mercato del lavoro. Più efficienza, meno diritti e tutele per scongelare un sistema ossificato, che non garantiva alla Germania di tenere il passo con la concorrenza internazionale.

Doveva, tuttavia, avere una contropartita. Garantire ai lavoratori una più alta partecipazione al maggior plus valore prodotto. Sia sotto forma di salari, che di potere d’acquisto, grazie a riforme profonde di tutta la società tedesca. Questo era il compromesso implicito. Le nuove tavole della legge, che invece sono state disattese. Finché non è intervenuto il disincanto che ha colpito, nella cabina elettorale, coloro che dovevano essere i garanti dell’accordo. Ma non hanno fatto valere le ragioni della controparte più debole del popolo tedesco. Le cui condizioni di vita non sono forse peggiorate, ma certamente non hanno seguito il passo che ha accompagnato lo sviluppo di quell’economia. Basti pensare a quei 4,9 milioni di occupati che sono solo “mini jobs”: lavoratori part time non sempre per libera scelta, ma solo – specialmente nei Länder dell’Est – quale antidoto alla disoccupazione.

C’è poi il problema di una povertà che rimane ancora diffusa e la vita grama di milioni di pensionati: categorie tutte escluse dal miracolo tedesco, che è andato soprattutto a vantaggio di pochi. Mentre una parte consistente del ceto medio subiva la falcidia dei propri risparmi a causa dei rendimenti negativi dovuti al quantitative easing di Mario Draghi. Che avrà anche salvato l’euro, ma non certo favorendo i piccoli risparmiatori in un Paese in cui la grande ricchezza finanziaria è solo appannaggio di pochi. Qualche dato dimostra come i progressi, nel segno dell’equità e della partecipazione sociale, siano stati più che modesti. Nel periodo delle grandi riforme del mercato del lavoro (dal 2003 al 2005), la pressione fiscale, in Germania, era pari in media al 38,5 per cento. Nel 2016 ha invece raggiunto il 40,3 per cento. Durante gli stessi anni il surplus delle partite correnti della bilancia dei pagamenti, che hanno concentrate immense risorse finanziarie nelle mani delle sole aziende esportatrici, è passato da una media del 3,5 per cento del Pil all’8,5 del 2016.

Ed ecco allora qual’è il grande tema con cui l’Spd, se vuole sopravvivere, deve fare i conti. Impegnarsi per una trasformazione radicale del “modello di sviluppo” fin qui seguito. Utilizzare quel surplus valutario non nel grande gioco dei mercati finanziari internazionali, ma per dare spazio alle istanze sociale della propria gente: salari più alti, un welfare più inclusivo, una più grande equità sociale. Solo così quel vecchio compromesso tra capitale e lavoro potrà nuovamente avere un senso. Una lezione da tener presente: non solo per la Germania, ma per quei Paesi, forse meno blasonati, come l’Italia, che presentano, seppure più in piccolo, gli stessi problemi.


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