Il giorno dopo la morte di Richelieu (4 dicembre 1642), Luigi XIII comunica ai suoi cortigiani la promozione del cardinale Giulio Raimondo Mazzarino al Consiglio del re. L’erede designato era il nunzio della Santa Sede che un decennio prima si era distinto in uno dei teatri cruciali del conflitto franco-ispanico. Grazie alla sua abilità diplomatica, infatti, Richelieu aveva ottenuto senza colpo ferire l’allontanamento degli spagnoli dal Monferrato. Da quel momento inizia un sodalizio cementato dalle missioni di Mazzarino presso la corte borbonica, dove si fa apprezzare per la sua prodigalità e il suo charme, diventando intimo di madame de Combalet, la nipote prediletta di Richelieu, e del frate cappuccino Joseph de Tramblay, l’eminenza grigia del ministro. Nel 1639 si trasferisce a Parigi. Due anni dopo, su proposta di Luigi XIII, Urbano VIII gli concede il cardinalato. Titolo che gli consente di partecipare al governo in una posizione di rilievo, nonostante le sue origini non altolocate.
Partorito da Ortensia Bufalini il 14 luglio del 1602, suo padre Pietro era un semplice famiglio dei Colonna. “La sua nascita era bassa e la sua infanzia vergognosa”, dirà un suo acerrimo nemico, Jean-François de Gondi. Un parvenu e un furfante fin da piccolo, insomma. In realtà, Giulio era il rampollo di una rispettabile famiglia borghese, in grado di assicurargli un buon livello di istruzione presso il Collegio Romano dei gesuiti e l’università di Alcalá de Henares, dove soggiornerà circa tre anni al seguito di Girolamo Colonna. La sua cultura politica si forma però essenzialmente nella Roma del barocco trionfante, delle accademie e dei circoli dei Barberini, della precettistica della Compagnia di Gesù, che verrà rielaborata da Baltasar Gracián nel suo Oráculo manual y arte de prudencia (1647).
In una splendida biografia (Mazzarino, Salerno Editrice, 2015), Stefano Tabacchi smonta i cliché denigratori della sua figura tramandati dalla memorialistica seicentesca. In Vent’anni dopo (1844), Alexandre Dumas li aveva mescolati sapientemente: il paragone impietoso con Richelieu, l’irresolutezza mostrata nei confronti della Fronda e nella pace di Westfalia (1648), l’arricchimento personale, il rapporto ambiguo con Anna d’Austria, il machiavellismo. Più tardi Jules Michelet descriverà Mazzarino come un avventuriero da commedia, come una sorta di germe patogeno che aveva inoculato nel corpo del paese il morbo della doppiezza italiana. Non fortuitamente i politici francesi contemporanei non desiderano essere accostati alla sua figura.
A tal proposito, vale la pena citare un episodio che forse in pochi ricordano.Nell’estate del 1995 apparvero sul giornale economico Les Echos ventiquattro Lettres de mon château. Lettere immaginarie, inviate – tra gli altri – a François Mitterand, Edouard Balladour, Charles De Gaulle, Bill Clinton. Piene di giudizi taglienti sulla politica dell’Eliseo, erano attribuite a un fantomatico “homme de l’ombre et de pouvoir comme l’était Mazarin”. Nel 2004 Le Monde rivelò la sua identità: era Nicolas Sarkozy, che Jacques Chirac aveva estromesso dal governo Juppé dopo essere stato eletto presidente della Repubblica.
In Italia, invece, il machiavellismo attribuito al cardinale è stato talora esaltato addirittura come un modello esemplare. Lo dimostra la fortuna dell’apocrifo Breviario dei politici, pubblicato per la prima volta nel 1684. Si tratta di una raccolta di codici di comportamento – nella sfera privata e in quella pubblica – e di massime sulla virtù della prudenza e sulla convenienza della dissimulazione prive di originalità, che riecheggiano il suo apprendistato nella diplomazia pontificia. Da noi è stato largamente citato sia nelle campagne giornalistiche contro i vizi della “casta”, ma anche per proporre in chiave qualunquistica un’idea della politica come arte di mantenere il potere. Giulio Andreotti, che ha molto giocato sulle sue presunte affinità con la “leggenda nera” del cardinale, ha definito come “massime eterne” quelle contenute nel Breviario.
La personalità di Mazzarino si presta quindi a diverse interpretazioni, le quali si sovrappongono al suo reale ruolo storico. Cronologicamente, il cardinale è stato l’ultimo dei “principali ministri”. Per circa un ventennio forzerà fino ai suoi limiti estremi l’istituto del ministeriat – ossia la funzione di alter ego del sovrano – inaugurato dal suo predecessore, cumulando insieme le cariche di primo ministro, capo del Consiglio di reggenza e padrino di Luigi XIV. E, sempre sulla scia del suo predecessore, forzerà fino ai suoi limiti estremi il modello assolutistico, respingendo la pretesa delle giurisdizioni superiori di esaminare le leggi emanate dal re e la più generale rivendicazione di una “monarchia temperata”. Esse erano state alla base della Fronda, termine utilizzato per designare il variegato schieramento di opposizione allo strapotere del cardinale.
La rivolta scatta nell’aprile 1648, quando il governo annuncia l’intenzione di abolire la paulette, il diritto annuale versato dai magistrati alla Corona in cambio dell’ereditarietà degli uffici. È la miccia di una guerra civile che insanguinerà la Francia per un quinquennio, e in cui l’alto prelato subirà l’onta dell’esilio e un vero e proprio linciaggio morale. Migliaia di opuscoli, libelli, pamphlet vennero stampati per divulgare le mazarinades, ovvero le turpitudini del “mostro italiano”: avidità, mancanza di etica dell’onore, ateismo, sodomia. Nella letteratura polemica, la sua depravazione sessuale diventa il simbolo sia di una personale perversione sia del pervertimento del regno di cui era responsabile. In questo clima sovreccitato, Mazzarino viene additato come l’astuto corruttore del figlioccio Luigi XIV, allevato imbelle in un ambiente licenzioso, e di Anna d’Austria, che gli si era prostituita.
Il cardinale uscì vincitore da questa durissima prova. La forza del lealismo monarchico, le divisioni interne ai ribelli, la fedeltà dell’esercito, il sostegno dei grandi banchieri, la diffusa coscienza patriottica delle élite urbane, consentirono il miracolo di sconfiggere i frondisti. Il 3 febbraio 1653, Mazzarino rientra nella capitale tra ali di folla festante. Il suo ritorno viene celebrato nel Ballet de la nuit, nel quale per la prima volta Luigi XIV – affiancato da ventidue dignitari – apparve vestito con l’aspetto del sole. Gli anni immediatamente successivi saranno quelli del “perdono”, che mirava a recuperare i leader frondisti, ad eccezione del cardinale di Retz e del principe di Condé. I loro partiti vengono decapitati, mentre nelle province le turbolenti clientele dei clan aristocratici saranno sottoposte all’occhiuta sorveglianza degli intendenti governativi. Mazzarino era ormai virtualmente il padrone del regno. La sua grandeur poggiava inoltre su un patrimonio ingentissimo, frutto di molteplici cariche e benefici ecclesiastici. Munifico mecenate, i suoi interessi artistici spaziavano dall’architettura alla pittura, dalla lirica al collezionismo di oggetti decorativi di pregio, memore dei fasti della Roma dei Barberini, di Pietro da Cortona, di Bernini.
Affidata la gestione finanze statali a Nicolas Fouquet, la priorità della sua politica internazionale è quella di sempre: realizzare una pace stabile con la Spagna. L’obiettivo viene centratato, ma al prezzo di lunghe ed estenuanti trattative con il primo ministro spagnolo Luis de Haro. Con il Trattato dei Pirenei (7 novembre 1659) la catena montuosa segna la nuova frontiera tra le due potenze. Inoltre, il patto dinastico tra i Borboni e gli Asburgo prevedeva il matrimonio tra Luigi XIV e l’infanta Maria Teresa, simbolo della ritrovata concordia tra le monarchie cattoliche nel quadro di un’Europa pacificata. All’indomani del Trattato il Parlamento di Parigi tributò al cardinale, elevato al grado di duca e pari di Francia, un solenne omaggio. Si sparse addirittura la voce di una sua possibile candidatura al soglio di Pietro.
Ma Mazzarino era già molto malato. Gli anni della Fronda e della ricostruzione del regno avevano spossato il suo fisico. Dal 1658 erano peggiorati i disturbi cronici di cui soffriva, i calcoli e la gotta. Non era più in grado di scrivere con le sue mani. Durante il 1660, gli ambasciatori avevano notato l’infittirsi dei colloqui tra il re e il cardinale. Luigi XIV andava a visitarlo più volte al giorno, e da lui veniva messo al corrente dei segreti e dei problemi di una macchina amministrativa vasta e complessa. Tuttavia, non si negava qualche divertimento: ad ottobre Molière e la sua compagnia misero in scena nel suo palazzo L’etourdi e Le precieuses ridicules, con una ricompensa di mille scudi. La sua agonia cessò il 9 marzo 1661, dopo aver preso l’olio santo e baciato il crocifisso. Il 10 marzo, Luigi XIV riunì il Consiglio dichiarando che non avrebbe più nominato un primo ministro, ma che avrebbe retto la Francia da solo.