Il 28 novembre si è tenuto a Budapest il 6° incontro ad alto livello del gruppo “16+1”, che comprende la Cina e tutti i Paesi dell’Europa centro-orientale, baltica e balcanica, di cui 11 sono anche membri dell’Ue. Il gruppo gestisce un fondo di dieci miliardi di euro, dati dalla Cina per lo sviluppo delle infrastrutture – porti, autostrade e ferrovie – in una regione in cui convergono le due componenti della Nuova Via della Seta, la terrestre e la marittima (BRI o Belt and Road Initiative), aspetto centrale della politica di Pechino dal 2013. Essa mira a interconnettere l’Eurasia per espandere l’influenza cinese in tutta la sua massa continentale, migliorando in particolare i collegamenti della Cina con i ricchi mercati dell’Europa Occidentale.
Per molti versi l’iniziativa “16+1” è strettamente legata alla Bri. Da un lato, intende prolungare all’Europa occidentale la Belt, cioè la componente terrestre della Nuova Via della Seta. Dall’altro lato, tende a mettere in comunicazione i porti del Mediterraneo con i Paesi dell’Europa centro-settentrionale. A tal fine la “16+1” è coordinata con la cosiddetta iniziativa dei “Tre Mari” (Adriatico, Baltico e Mar Nero), anch’essa proposta e quasi interamente finanziata dalla Cina. Nel quadro di quest’ultima sono previsti il collegamento con una ferrovia ad alta velocità del porto del Pireo con Belgrado e Budapest; la costruzione del canale navigabile Oder-Bratislava, che unirà il Baltico con quello Reno-Danubio; e il potenziamento della ferrovia fra Belgrado e il porto di Bar sull’Adriatico. La Bri è un grandioso progetto infrastrutturale che modificherà non solo la geografia economica, ma anche la geopolitica dell’intera Eurasia.
Gli obiettivi perseguiti da Pechino tanto con la Bri quanto con la “16+1” non sono stati chiaramente esplicitati. Certamente non sono solo economici, ma anche politici e strategici. Non sono neppure del tutto chiare le conseguenze dell’attuazione delle due iniziative. Di certo, è solo il fatto che esse tendono ad assorbire le sovra-capacità produttive della Cina nell’industria pesante e nella costruzione infrastrutturale, finora trainanti nella crescita economica della Cina.
Vari interrogativi sono sorti sulle ragioni dell’interessamento cinese per l’Europa centro-orientale e balcanica. Le risposte date diverse. Nessuna risulta da sola del tutto convincente. Verosimilmente, le ragioni di Pechino sono molteplici. Le esportazioni cinesi non possono aumentare in modo significativo con l’accesso ai mercati degli Stati della regione, che sono relativamente poveri. I “16” rappresentano però un transito per accedere ai ricchi mercati dell’Europa Occidentale, riducendo i costi e i tempi di trasporto. Nei Paesi occidentali dell’Ue esiste il sospetto che la Cina, con il “16+1” e i “Tre Mari”, persegua anche altri obiettivi. Potrebbe voler ottenere il sostegno di molti Paesi dell’UE, da utilizzare nei negoziati sugli accordi globali fra la Cina e l’Unione, considerata da Pechino il mercato più attraente nel prossimo futuro. Le crescenti divisioni fra gli Stati occidentali e quelli orientali dell’Europa giocano a favore della penetrazione cinese in questi ultimi. La Cina, che sta aumentando la sua influenza in Asia Centrale, potrebbe anche voler essere presente ai confini occidentali della Russia, come lo è già in Ucraina, con cui ha cercato di migliorare le relazioni non riconoscendo l’annessione della Crimea da parte della Russia.
Taluni esperti, specie ungheresi e polacchi, pensano che la presenza cinese accresca la forza negoziale dei loro Paesi con Bruxelles. Il presidente della Macedonia è giunto ad affermare che le intese con la Cina costituiscono anche uno strumento di pressione per accelerare l’ammissione all’Ue dei Balcani occidentali che ancora non ne fanno parte. Quello serbo ha detto che servono anche a stimolare gli aiuti dell’Ue. Stranamente gli Usa non hanno formulato obiezioni alla penetrazione cinese proprio nella regione in cui hanno aumentato la loro presenza militare in funzione dissuasiva nei riguardi della Russia. Molti europei occidentali sono invece più preoccupati della convergenza fra la crescita dell’influenza cinese e quella delle tendenze nazional-populiste in molti i Paesi facenti parte del “16+1”. Temono che esse possano porre in crisi l’Ue, indebolendone ancora i principi e i valori su cui si fonda.
A parer mio, le preoccupazioni sull’aumento della presenza cinese in Europa Orientale, Baltica e Balcanica sono ingiustificate. La priorità per tutti tali Paesi resta l’Ue, anche perché gli investimenti di quest’ultima restano superiori di più di dieci volte a quelli cinesi. Per molti, essi rappresentano invece un utile complemento di quelli dell’Ue, contrattisi notevolmente per effetto della crisi economica. Contribuiscono quindi ad adeguare tali Paesi agli standards europei, economici e infrastrutturali.
Diversa è la posizione dell’Italia. I porti dell’Alto Adriatico rischiano di essere spiazzati, nelle loro connessioni con il Nord Europa, dalle infrastrutture previste dal “16+1”. È un rischio sottovalutato in Italia. Potrebbe aumentare per le carenze infrastrutturali del nostro Paese e per la sistematica opposizione alla realizzazione di nuove “grandi opere”. Solo un grande programma infrastrutturale potrebbe contenere tale rischio di marginalizzazione dell’Italia, oltre a dare il sempre più necessario impulso alla crescita economica nazionale.