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Cosa pensano i think tank Usa della decisione di Trump su Gerusalemme

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Nelle ore in cui Donald Trump ha confermato la propria decisione di riconoscere formalmente Gerusalemme quale capitale di Israele, la comunità dei think tank a Washington si interroga sul significato e sulle conseguenze della scelta del presidente, analizzandone tutte le possibili ripercussioni sul contesto regionale e internazionale.

A prevalere nella capitale federale è il senso di incertezza per gli effetti destabilizzanti che la decisione di Trump potrà avere, sia con riferimento agli sforzi per portare avanti il processo di pace sia dal punto di vista delle nuove tensioni che potrebbero infuocare l’intera regione mediorientale.

Più in particolare, la comunità degli analisti è spaccata tra coloro che considerano la scelta di Trump come un passo necessario per costruire su basi più solide il confronto tra israeliani e palestinesi e coloro che, invece, prevedono un pericoloso aumento dell’instabilità a tutto svantaggio degli Stati Uniti.

LA POSIZIONE DELL’ATLANTIC COUNCIL

Tra i primi commenti pubblicati sul tema emerge la presa di posizione dell’Atlantic Council. Il think tank utilizza l’espressione “Pretty Serious Mistake” (“errore abbastanza serio”) per sintetizzare la valutazione, sostanzialmente negativa, sulla decisione di Trump. Secondo gli analisti dell’AC, infatti, il riconoscimento di Gerusalemme come capitale israeliana non promuoverebbe gli interessi degli Stati Uniti nella regione. Sul punto il think tank riporta il pensiero di James B. Cunningham, già ambasciatore statunitense in Israele dal 2008 al 2011.

A poca distanza dallo statement presidenziale, Cunningam ha dichiarato: “I think it is a mistake and, potentially, a pretty serious mistake. If you’re going to upend decades of US policy, it ought to be for a good reason and for a significant political and diplomatic gain. I don’t see that either of those two are attained here”.

L’accusa più forte è, dunque, rivolta alla miopia strategica che affliggerebbe una scelta precipitosa e poco ponderata.

IL COMMENTO DEL CSIS

Su una simile linea di pensiero si posiziona il Center for Strategic and International Studies, pur manifestando una critica meno esplicita e diretta. Il Csis si concentra in maniera particolare sugli effetti a livello regionale e sulle ripercussioni che gli Usa potrebbero subire nel rapporto con i paesi che non hanno condiviso la svolta di Trump, a partire dalla Turchia.
Come segnalato da Formiche.net, secondo il premier turco Erdogan Gerusalemme rappresenterebbe una linea rossa per tutti i musulmani e la messa in discussione di tale linea potrebbe avere conseguenze nefaste nel rapporto con i paesi occidentali.

Sul punto, il Csis riporta il pensiero di Bulent Aliriza, Director e Senior Associate del Turkey Project. In un’analisi recentemente pubblicata sul sito del think tank, lo studioso afferma: “President Donald Trump confirmed in a formal statement at the White House his long-anticipated decision to recognize Jerusalem as the capital of Israel and to move the U.S. Embassy from Tel Aviv, thus bringing to end the 50-year policy maintained by successive administrations to balance strong American support for Israel with recognition of Arab and Islamic sensitivities on the city”.

Anche in questo caso a prevalere è l’incertezza dettata da una strategia che non guarda lontano. Sotto accusa l’eccessiva leggerezza con cui la Casa Bianca avrebbe deciso di buttarsi alle spalle una linea politica seguita da amministrazioni democratiche e repubblicane nell’arco degli ultimi cinquant’anni.

IL PUNTO DI VISTA DI BROOKINGS

Brookings Institution, considerato il primo think tank per importanza nella capitale federale secondo la classifica 2016 stilata dal Global Go To Think Tank Index Report, ha espresso un punto di vista più tecnico, elencando tutti i possibili effetti sulla politica estera statunitense e sul processo di pace in corso.

Sulla questione è intervenuto Natan Sachs, direttore del Center for Middle East Policy, dichiarando che “ciò che Trump ha fatto è riconoscere un dato ovvio e risaputo, che già esiste nella realtà, ma è stato anche un atto estremamente rischioso e forzato. La sua decisione potrebbe avere importanti ripercussioni sui rapporti con i palestinesi, gli arabi, i musulmani e l’intera regione. Questo potrebbe mettere in pericolo l’intero processo di pace”.

Anche Brookings, dunque, conferma una visione sostanzialmente critica su come Trump abbia deciso di agire, tralasciando i numerosi cori di allarme che pure si sono levati nelle ultime settimane.

LA CRITICA DEL WILSON CENTER

Negativa anche la presa di posizione del Wilson Center. Il sito dell’autorevole think tank ha rilanciato un editoriale di Aaron David Miller, direttore del programma sul Middle East, intitolato “Recognizing Jerusalem as Israel’s capital is a dangerous gambit”.

L’editoriale, pubblicato dalla CNN, riporta: “Let’s be clear, the US Embassy should be in West Jerusalem… The problem is that Israel has declared the entire city to be its eternal and undivided capital, including the eastern part of the city where many Palestinians reside and where the Palestinian Authority hopes to establish a capital once a Palestinian state is created. If Trump asserts that US policy is that Jerusalem is the capital of Israel, it would be tantamount to saying that Washington now recognizes Israel’s sovereignty over the entire city. If he simply says that just West Jerusalem is Israel’s capital, he risks alienating the Israeli government by suggesting that the eastern part of the city isn’t included”.

Non viene dunque criticato il merito della scelta quanto piuttosto il modo con cui Trump ha agito, escludendo dal processo decisionale il punto di vista di numerosi esperti nazionali ed internazionali, alleati e avversari.

LA POSIZIONE DI HERITAGE FOUNDATION

Assai interessante la linea di Heritage Foundation, importante think tank comunemente ritenuto vicino all’attuale amministrazione. Sebbene sul sito di Heritage non siano state pubblicate analisi o commenti nelle ore successive allo statement di Trump, è possibile reperire in rete le dichiarazioni rilasciate da membri del think tank nei giorni scorsi.

Tra queste è particolarmente esplicativa l’analisi di James Phillips (Senior Research Fellow for Middle Eastern Affairs), rilasciata al Daily Signal: “Moving the embassy has been a third rail for Middle East policy because of fears it would give Iran and other anti-American, anti-Israel forces a reason to go after moderate Arab governments. This would correct a historic anomaly, because the U.S. has a consulate in East Jerusalem representing its interests to the Palestinian Authority, but there is nothing for Israel. This could provoke anti-American riots and have a negative impact on the Israeli-Palestinian peace negotiation the administration is working on”.

Il silenzio che il think tank ha mantenuto nelle ore direttamente successive alla dichiarazione di Trump quantomeno confermerebbe, dunque, il timore per gli effetti imprevedibili che potrebbero scaturire da una svolta che è, in ogni caso, storica.


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