Tra pochi giorni sarà legge la regolazione delle dichiarazioni anticipate di trattamento sanitario. Anche se figlia di un lungo dibattito segnato dalla complessa vicenda di Eluana Englaro, in parlamento essa è stata trattata nel merito solo dalla commissione affari sociali della Camera ove da un lato sono state evitate soluzioni ancor più divisive come la volontà non dichiarata ma “presunta” del paziente e, dall’altro, è tuttavia mancata quella mediazione che poteva nascere solo dalla volontà degli schieramenti di rispettare tutte le sensibilità presenti nella società.
A coloro che dubitano della possibilità di compromessi in queste materie, ricordo la legge sulla interruzione volontaria di gravidanza che è stata pazientemente costruita sulla base di un principio, il valore della vita, e di deroghe limitate ad esso in relazione alla salute della donna. In questo caso si è preferito invece un approccio ideologico fondato sulla assoluta autodeterminazione dell’individuo anche se espressa preventivamente in uno stato di benessere ed estesa alle stesse cure vitali come acqua e cibo.
Il rispetto della volontà della persona sarebbe condivisibile se espressa sulla base di una adeguata informazione nella situazione attuale e concreta. Ma in quest’ultimo contesto, quando il paziente non è cosciente, dovremmo concordemente riconoscere che solo il medico, tenendo conto dei suoi orientamenti dichiarati e dialogando con i familiari, potrebbe alla fine decidere l’appropriatezza delle terapie e delle cure. Il legittimo timore è che questa ulteriore delegittimazione del medico, già sottoposto a frequenti azioni di responsabilità spesso “temerarie”, ne irrigidisca i comportamenti e affievolisca l’orientamento alla vita non solo nel servizio sanitario ma anche nella stessa società.
D’altronde la legge non è dedicata tanto all’accanimento terapeutivo nel fine vita quanto, piuttosto, agli stati di lunga e grave disabilità che si vorrebbero da un lato prevenire con la rinuncia alla rianimazione e, dall’altro, eliminare con la rinuncia non solo alle terapie ma anche alle cure della persona. L’usuale motivazione è che questa “non sarebbe vita degna di essere vissuta”. Non possiamo non avvertire la sgradevole sensazione di una involuzione verso una dimensione in cui si riduce l’attitudine a sopportare le fatiche della cura degli altri e, in conseguenza, la disponibilità ad affrontare le proprie stesse fragilità.