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Il contributo dell’Italia alle nuove sfide dell’Alleanza Atlantica. Parla Andrea Manciulli

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Manciulli, il forum transatlantico è stato un prezioso momento di confronto tra le delegazioni parlamentari dei paesi NATO. Qual è il suo giudizio sui lavori appena conclusi?

La riunione è stata più che interessante. Tra tutti gli interventi, ritengo siano stati assai significativi quelli espressi dai rappresentanti della Difesa USA, dei quali ho apprezzato la consapevolezza circa le sfide da affrontare e la visione cauta rispetto all’andamento della campagna anti Daesh o alle insidie per la nostra regione. Con riferimento a delle tematiche per noi così sensibili, ho apprezzato l’ottimo terreno d’intesa emerso nel corso dei lavori.

Qual è lo stato di salute dell’Alleanza Atlantica?

Direi che dal forum sia partito un chiaro segnale di rilancio sui temi etici e morali su cui si fonda il lavoro della NATO. Questa unanimità di vedute è oggi più che mai essenziale, in un’epoca storica in cui la sovraesposizione mediatica delle nuove tipologie di conflitto, basate prevalentemente sul soft power, richiede un investimento nuovo sui valori di sicurezza e democrazia. Mi ha fatto molto piacere notare che tale idea sia largamente condivisa in Assemblea. Detto ciò, è giusto osservare che i problemi da risolvere non sono pochi.

Quali sono le sue preoccupazioni?

A mio avviso c’è un grande ritardo nel comprendere quanto sia essenziale per i Paesi atlantici mettere in campo un soft power rivolto a promuovere i valori dell’occidente e a rilanciare la NATO nell’attuale scenario internazionale. Si tratta di un passo che ritengo fondamentale per aumentare i livelli di attenzione sulle sfide che già oggi interessano alcuni paesi in Europa.

C’è una linea di pensiero prevalente all’interno dell’Assemblea sull’approccio al tema della sicurezza internazionale?

Mi sento di affermare che, paradossalmente, a prevalere sia stata la linea di pensiero di uno schieramento trasversale in grado di unire i think tank americani e le delegazioni. È evidente, infatti, che nella maggior parte dei think tank domini una visione non proprio collimante con l’attuale amministrazione. Questo ha contribuito ad uniformare i punti di vista tra i partecipanti ai lavori. Sarebbe al contrario fondamentale, a mio avviso, avere opportunità di dialogo diretto con l’opinione pubblica americana, il cui pensiero potrebbe essere differente. Il rischio è quello di darsi ragione a vicenda senza, però, risolvere il tema per noi più sensibile, ossia il rilancio dell’Alleanza Atlantica.

Come valuta il contributo dei rappresentanti dell’amministrazione americana?

Debbo dire che nel confronto con i membri del Congresso è emersa una linea di pensiero complessa, che riflette molto chiaramente l’opinione dell’attuale amministrazione. È inoltre interessante notare come gli interventi dei rappresentanti del Pentagono abbiano dimostrato non solo una grande attenzione ma anche una ammirevole preparazione sui temi a noi più cari.

Quali prospettive per il Mediterraneo?

Ho notato una buona sintonia fra la posizione italiana e il Department of Defense Usa. Mi ha fatto piacere il richiamo nel corso dei panel al Nato Strategic Direction South Hub di Napoli, il cui ruolo è fondamentale per assicurare la dovuta attenzione al Mediterraneo. Questo è positivo, poiché mentre nel dibattito pubblico continua a prevalere l’attenzione verso l’impegno della NATO nell’est europeo, il nostro Paese è sempre più ingaggiato nel far emergere le istanze di sicurezza per noi più sensibili. Ritengo che vi sia ancora del lavoro da fare e che non dobbiamo abbassare la guardia sui temi di nostro maggiore interesse.

Qual è la posizione delle delegazioni in Assemblea Parlamentare quando si discute di Mediterraneo?

Vi sono una serie di Paesi seriamente preoccupati per quello che avviene nel Mediterraneo, e non penso solo a quelli direttamente interessati per ragioni geografiche. Basti pensare alla Germania e al Regno Unito, che hanno un forte focus sull’intera area. È evidente che questo interesse possa rappresentare un fattore su cui puntare per incentivare gli sforzi di stabilizzazione nella sponda sud. I progressi sono comunque notevoli: siamo passati dal vertice del Galles, in cui i temi del Mediterraneo erano marginali, a quello di Bruxelles, in cui il contrasto al terrorismo è divenuto centrale. Sebbene siamo difronte ad una tematica non risolta, credo che tanto si possa fare e che il nostro governo debba aumentare gli sforzi, facendo sentire il proprio peso in maniera intelligente e inclusiva.

In che modo?

Molto semplicemente, dovremmo concentrarci sui temi di nostro interesse senza, però, tralasciare tutte le istanze avvertite dagli alleati. A mio avviso dovremmo manifestare attenzione verso il tema degli attacchi cyber, la conflittualità latente nell’Europa dell’est o anche l’emergente crisi nordcoreana. Un atteggiamento responsabile non può ignorare tali istanze. La posizione strategicamente più conveniente è quella del bilanciamento tra tutte le priorità esistenti.

Quale peso ha oggi il multilateralismo nelle relazioni tra i paesi NATO?

È evidente che vi siano Paesi che preservano relazioni privilegiate su alcune istanze, basti pensare all’Italia quando si parla di Mediterraneo: il nostro Paese ha la capacità di portare avanti con grande successo relazioni bilaterali con alcuni partner internazionali. Il contesto multilaterale resta comunque fondamentale affinché gli interessi di tutti gli stati, spesso divergenti, possano trovare un momento di sintesi e di dialogo. Questo è particolarmente chiaro in Libia o anche in Siria, quando si parla di ricostruzione. Servono, definitivamente, entrambi i piani e serve consapevolezza sul fatto che la vicenda del terrorismo internazionale non possa essere risolta solo fuori dai confini dell’Occidente, data la pervasività del fenomeno.

Come si pone l’Alleanza sui temi del terrorismo?

Al momento debbo dire che l’Alleanza necessita di un salto di qualità, non avendo ancora una strategia ben definita. Avremo da gestire il tema scottante dei lupi solitari e del terrorismo di ritorno, spesso alimentato anche dai media, che coinvolge tutti i combattenti ritiratisi a seguito della disfatta di ISIS. Su questo l’Italia può fare tantissimo.

Quale strada seguire nel confronto con la Russia? Hard power o soft power?

Se si guarda all’attualità, è evidente la fortissima manifestazione di soft power di vario genere da parte di alcuni attori internazionali. Penso proprio alla Russia, che sta cercando di costruire una nuova area di influenza geopolitica. Quello che l’Alleanza dovrebbe capire è che non declinando il dovere di esercizio del soft power sui nostri valori, rischiamo di subire una sonora sconfitta e i primi a rimetterci potrebbero essere proprio gli Stati Uniti.

Le fake news e la disinformazione riguardano solo l’Europa dell’est o sono anche un tema di nostro interesse?

Le fake news rappresentano una parte della strategia di soft power. Si tratta di meccanismi di influenza conosciuti da tempo. Il problema è che oggi sono utilizzati in maniera seriale e su larga scala. Nello specifico, grazie alle nuove tecnologie si rivelano sempre più capaci di condizionare una società pesantemente governata dai sistemi di comunicazione. Basta prendere come esempio la vicenda Snowden. Due anni fa mi è capitato di assistere ad un evento in cui era invitato ad intervenire da Mosca Edward Snowden, che in quell’occasione attaccò violentemente la libertà di espressione e di informazione in occidente, pur parlando da un paese che su questi temi ha un atteggiamento notoriamente particolare. Mi colpì il silenzio da parte dei numerosi giornalisti in sala e l’assenza di obiezioni sul punto. Questo è segno del nostro ritardo storico, poiché un tempo i valori atlantici sarebbero stati molto più saldi nel DNA della classe politica e della società civile. Con ciò voglio dire che ogni paese cerca di difendere e far emergere i propri interessi strategici. Sull’esercizio del soft power dovrebbe, dunque, esservi molta più attenzione, anche da parte del nostro interlocutore americano, poiché i tentativi di interferenze e la disinformazione non arrecano danni solo a noi europei ma a tutti i paesi dell’Alleanza, a partire dagli Stati Uniti.


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