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Perché i trumpiani vogliono silurare l’uomo della sicurezza di Trump, il generale McMaster

mcmaster

Quello tra Donald Trump e la comunità intelligence statunitense è un rapporto complesso. Lo è sempre stato, sin dai primi giorni del presidente allo Studio Ovale.

Se la decisione di porre Mike Pompeo a capo della CIA si è rivelata una scelta largamente apprezzata, la Casa Bianca ha faticato non poco nel cercare un equilibrio stabile e duraturo nel delicato rapporto con gli altri vertici delle istituzioni deputate alla sicurezza nazionale. In questa chiave di lettura possono essere interpretate le alternanze di nomine in incarichi di primo piano e la mancata designazione da parte di Trump di figure essenziali per assicurare il massimo dialogo con la comunità intelligence americana. È questo il caso del President’s Intelligence Advisory Board, organo collegiale istituito nel 1956 dal presidente Dwight Eisenhower con il compito di supportare le scelte della Casa Bianca in materia di sicurezza nazionale e che oggi, a quasi un anno di distanza dall’Inauguration Day di Donald Trump, non è stato ancora designato dalla nuova amministrazione.

Le difficoltà da parte del presidente e dei suoi più stretti collaboratori nell’individuare le giuste personalità per l’incarico in questione esprimono chiaramente il disagio mai celato da Trump nei confronti di una parte di quel mondo che avrebbe alimentato le accuse di collegamenti con la Russia, dalle quali sono poi scaturite le indagini sul Russiagate.

Come riportato da Foreign Policy, la mancata designazione dei membri trumpiani dell’Intelligence Advisory Board viene fatta passare come espressione di disinteresse del presidente ma anche come segno di debolezza da parte di quelle figure a cui è deputato in concreto l’esercizio delle competenze in materia di sicurezza nazionale. Tra queste va certamente annoverato il Gen. H.R. McMaster, National Security Advisor di Trump succeduto all’inizio del 2016 a Michael Flynn, recentemente incriminato dal procuratore speciale Robert Mueller per aver reso falsa testimonianza all’FBI nell’ambito delle indagini sul Russigate.

Il gen. McMaster, sin dai primi giorni nel suo incarico, si è trovato a dover gestire un clima pesante e in più di un’occasione ha dovuto difendersi dal gioco duro di quelli che non hanno digerito la sua nomina in una posizione così influente. Spifferi dalla Casa Bianca nell’estate dell’anno scorso riferivano di una particolare antipatia nei suoi confronti da parte di Steve Bannon, che proprio in quel periodo, suo malgrado, si preparava a lasciare la Casa Bianca nell’ambito di un processo di “normalizzazione” dei ruoli apicali nell’amministrazione voluto da Trump e avallato dallo stesso McMaster.

Di lì a poco sarebbe partita una vera e propria campagna denigratoria nei confronti del nuovo National Security Advisor, alimentata prevalertene da gruppi di estrema destra che accusavano McMaster di affossare la dottrina dell’America First e di essere troppo vicino all’establishment di Washington.

Il generale, che nel frattempo è riuscito a trovare una propria dimensione nei rapporti con il presidente e nell’interfaccia con l’universo intelligence statunitense, ha retto le accuse, superando una fase turbolenta che oggi sembra riprendere forza, alimentata da nuove insinuazioni basate proprio sulla mancata nomina dell’Intelligence Advisory Board.

A riguardo, i media americani hanno utilizzato l’espressione “guerriglia” per sintetizzare il clima di tensione intorno alla vicenda.

Ancora una volta voci critiche si sarebbero levate per denunciare una sostanziale incapacità di McMaster nel trovare figure giuste per un incarico non facile da far digerire allo stesso Trump.

Secondo queste voci i tentativi sinora compiuti sarebbero andati a vuoto prevalentemente a causa della scarsa considerazione nei confronti del generale da parte dei papabili a cui è stato proposto l’incarico.

La partita sembrerebbe, però, tutta interna e giocata in un campo in cui si contrappongono due fazioni opposte, come confermato dalle dichiarazioni di un ex funzionario del National Security Council, riportate da FP: “Someone is always plotting something against another faction, There is always someone trying to oust McMaster, who arrives to discussions with well-prepared, thoughtful positions”.

Per capire meglio la situazione è utile richiamare la linea politica da cui partono le accuse a McMaster. In questo esercizio, vale la pena di riproporre le dichiarazioni di Frank Gaffney, presidente del Center for Security Policy e ispiratore di una dura campagna contro i musulmani negli Stati Uniti. Su McMaster Gaffney ha recentemente detto: “He wasted a precious year of Donald Trump’s presidency. He sabotaged President Trump’s campaign against defeating radical Islamic terrorism”.

Dietro la nuova campagna di accuse potrebbe quindi celarsi lo stesso disegno ispiratore delle critiche di vicinanza all’establishment politico che Trump si proponeva di affossare con la dottrina dell’America First.

Non è da escludere, dunque, che in questo modo una fazione ancora attiva alla Casa Bianca stia cercando di creare nuove fratture tra il national security advisor ed il presidente, utilizzando come espediente uno dei nervi scoperti che da sempre caratterizzano questa amministrazione, il rapporto complesso con la comunità intelligence.


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