Bello, elegante, attraente, ogni primavera che passa lo è sempre di più Joseph Stalin, almeno nelle gigantografie che in quella stagione dell’anno sostituiscono detersivi o telefoni cellulari sulle fiancate degli autobus moscoviti. L’iniziativa fa parte di una campagna pubblicitaria tesa a ricordare al Paese il ruolo svolto proprio da lui, Joseph Stalin, nella lotta e nella sconfitta del nazismo. Comincia ricordando questo fatto ormai consolidato ma poco noto all’estero l’illuminante articolo di Nikita Petrov, vicedirettore di Memorial e apparso sull’ultimo numero di Foreign Affairs.
L’articolo prende le mosse dai “nostalgici”, che invocano il ritorno di monumenti dedicati a Stalin, o di tornare a dedicare a lui e alla sua memoria l’odierna città di Volgograd, in epoca sovietica chiamata proprio Stalingrado. Ma presto il suo sguardo si allarga alla cultura, alle librerie, piene di opere dai titoli inequivocabili: “L’altro Stalin”, “Il grande Stalin”, “Stalin, il padre della nazione”. Un filone che non poteva non tentare il recupero anche di altre figure odiose, come quella di Lavrenty Beria. Putin è estraneo a questo nuovo corso? È un nuovo corso solo storiografico? Ricordati i crimini stalinisti e i suoi costi in termini di vite umane, a cominciare dalle vittime del Grande Terrore degli anni ‘37-‘38, quando la polizia segreta uccise centinaia di migliaia di kulaki nel nome della collettivizzazione e un totale di circa 700mila persone in appena 15 mesi, Nikita Petrov sottolinea che a differenza di quanto accaduto ai tempi di Gorbaciov, oggi le autorità russe evitano giudizi netti sul passato. Putin di recente ha detto che “ci sono state pagine tragiche e brillanti nella nostra storia”.
E proprio qui, nella storia e nel suo senso, si ritrova il risvolto più importante di questo articolo. Perché ancora non si parla di “crimini” ma di “errori” compiuti da Stalin? Perché nel 2013 il presidente Putin, rispondendo alla domanda di un giornalista britannico su cosa pensasse di Stalin, rispose chiedendo: “Cromwell è stato migliore di lui?”. Il popolare testo scolastico “Storia della Russia, 1917-2009” definisce “lo Stalin statista un grande eroe, ma in termini di diritti umani è stato un malefico assassino”. Tutto questo preoccupa Memorial per l’intervento dello Stato nell’economia, insegnamento della storia e l’evidente permanenza di una concezione paternalistica del governo unita alla glorificazione nazionalista del passato, incluso quindi anche il passato sovietico. L’idea di fondo per Petrov è semplice: il governo ha sempre ragione, e se sono stati commessi errori erano necessari per proseguire nel cammino scelto dalla nazione. La Storia così non è una materia di studio oggettivo, ma uno strumento dell’ideologia dello Stato. La scuola pubblica ha standard storico-culturali nei curricula scolastici che menzionano errori, mai crimini. Ecco perché ancora oggi pochissimi russi si riferiscono al Grande Terrore come un crimine, piuttosto a qualcosa che ricorda un disastro naturale, non qualcosa di pianificato e perpetrato da Stalin e dal suo governo contro il popolo.
La negatività della storia sovietica sarebbe parte di un progetto occidentale, che intende usare la storia come un’arma contro la Russia. Così si arriva a scoprire che mentre anche molti altri combatterono il nazismo, questi lo fecero per proprio tornaconto o calcolo, solo l’Unione Sovietica lo fece per il bene e l’interesse di tutta l’umanità. E questo si iscrive in una “missione” della nazione, missione svolta dall’Unione Sovietica come erede dell’impero zarista e proseguita oggi dalla Russia, legittima erede di entrambi. “Questo dimostra – scrive Petrov – l’essenza messianica del popolo russo”. E del ruolo svolto dalla Russia, dunque. Una convinzione che giustifica i vecchi espansionismi come il nuovo, teso a unificare tutti i russofoni sotto il governo di Mosca. Per garantire l’unità del popolo e lo svolgimento del suo ruolo messianico.
Un’ossessione, si direbbe, diffusa in molti nazionalismi. Ai tempi in cui costruirono i loro imperi, francesi e inglesi spiegavano il colonialismo come parte della “missione civilizzatrice” svolta storicamente da loro. E dall’altra parte, gli ideologi del panarabismo, vissero nel nazionalismo arabo una missione storica, quella di un popolo che sostituisce la lotta di classe con la lotta del popolo sottomesso dai colonialisti. Un valore universale, una missione – in un certo senso – civilizzatrice anch’essa.
Il saggio di Petrov getta però una luce inquietante sulla realtà odierna: in molti salotti guida del neo-conservatorismo moscovita si ripetono priorità paternaliste: “L’urgenza non è quella di un governo che serva, ma quella di un governo che agisca come un padre, anche se severo”.