Il giovane Sebastian Kurz, 31 anni, divenuto Primo Ministro dell’Austria dopo la vittoria di popolari conservatori ed estrema destra alle elezioni politiche di ottobre, ha deciso di giocare la sua carriera politica su messaggi di chiusura. È normale. In fondo la sua coalizione di governo si regge sull’alleanza con un partito xenofobo e razzista. Dal punto di vista dell’elettore medio austriaco, una scelta opportuna. Dal punto di vista del cittadino medio austriaco, una decisione da guerra civile, visto che spacca a metà la società civile e l’opinione pubblica. Nessuno che invece guardi a quella scelta dal punto di vista del cittadino europeo. Cosa che proviamo a fare in questa sede.
Il sistema delle quote, tanto avversato da Austria, Ungheria ed altri paesi dell’est Europa, nasce dal fallimento della Convenzione di Dublino, firmata nel 1990. Si trattava di un documento che prevedeva il collocamento dei migranti in base al primo ingresso. In sostanza: se un migrante attraversava il braccio di mare fra l’Africa e l’Italia approdando su una nave o una spiaggia italiana, era l’Italia a doversi far carico del riconoscimento, dell’accoglienza, dell’eventuale rimpatrio. Un accordo palesemente iniquo, che poteva tuttavia stare in piedi fino a quando i numeri dei migranti erano limitati. Un meccanismo divenuto insostenibile quando i flussi hanno iniziato a coinvolgere milioni di persone. Italia e Grecia si sono trovate a farsi carico di una massa enorme di flussi migratori, e non potevano oggettivamente essere lasciate a gestirli autonomamente.
Per far fronte a questo nuovo problema, dopo anni di emergenze, la Commissione ha adottato il “sistema delle quote”. Il Trattato di Lisbona prevede infatti che le competenze in materia di immigrazione siano in mano agli Stati, ma che debba essere rispettato a livello europeo il principio di equa e solidale ripartizione di oneri e flussi. E così, ad ogni paese, in base a parametri quali popolazione e Pil, vengono automaticamente allocate e ripartite quote di migranti in ingresso sul territorio europeo, indipendentemente dal luogo di accesso.
È un sistema sensato? È sicuramente un sistema imperfetto e pieno di problemi ancora irrisolti. Non tiene conto del paese di destinazione finale in cui il migrante desidererebbe andare. Non risolve i problemi migratori alla radice, ossia attaccando direttamente la questione delle politiche di sviluppo e di stabilizzazione dei paesi di origine (cosa che peraltro necessiterebbe di una vera e propria politica estera e di cooperazione allo sviluppo europea, ad oggi purtroppo ancora abbandonate a logiche di compromesso nazionali).
Ma è sicuramente più sensato rispetto al criterio del paese d’ingresso. Costringe soprattutto a vedere l’Europa come uno spazio comune che affronta collettivamente un problema comune.
Il problema allora diventa: come si convince uno Stato ad adeguarsi a scelte collettive adottate a maggioranza? Questo è un nodo cruciale di una democrazia sovranazionale, soprattutto in prospettiva quando, ci si augura, sempre più decisioni verranno assunte a maggioranza e non all’unanimità, rendendo inevitabile che qualche Stato si trovi a dover attuare norme per le quali non ha dato parere favorevole.
Esistono due modi, ad oggi noti, di gestire questo problema. Il primo è quello confederale. In ultima istanza è lo Stato a decidere se aderire o meno (in forma di fatto volontaria); quindi se non intende sottostare alle scelte collettive esce dall’organizzazione. Il secondo è quello federale: in una costituzione federale, in ultima istanza, sulle materie di competenza federale è il livello sovranazionale che decide e che impone, anche con l’uso della forza, il rispetto della norma.
L’Europa non ha ancora deciso che cosa è: se un’organizzazione internazionale su basi confederali; o se è invece una forma costituzionale federale.
Le competenze in materia migratoria, ricordiamolo, sono in capo agli Stati nazionali però queste, come dicevano prima, dovrebbero essere gestite nell’ottica della solidarietà e dell’equità. Ma chi garantisce che questo accada?
Se l’Europa intende essere una confederazione, ha ragione Kurz, e fa benissimo a tutelare gli interessi dei propri cittadini/elettori. Se invece intende essere una comunità di persone che si fanno carico collettivamente di problemi comuni, allora deve mettere in atto (e deve poterlo fare in maniera istituzionalmente credibile) procedure drastiche e rigorose per costringere uno Stato recalcitrante ad accettare la volontà collettiva, anche con l’uso della forza o, nel migliore dei casi, con l’espulsione dello Stato e dei suoi cittadini dall’Unione Europea.
Quando vi sono contrasti fra Stati ed Unione in un sistema sovranazionale, l’unica decisione possibile è fra un modello federale (in cui le decisioni vengono imposte da organi legittimati democraticamente) ed uno confederale (in cui ogni Stato fa quello che gli pare). Tutto il resto sono discussioni assolutamente inutili. Buon Natale.