Fedeli riuniti in aula Paolo VI per la prima udienza del 2018. Chi di loro si sarebbe potuto immaginare di partecipare a un evento che riassume il senso di un pontificato proprio mentre un altro evento spiegava il senso di un dissenso sempre più arroccato, intransigente? È andata così. Papa Francesco, al quale certo non si può dire che manchi il dono della chiarezza, ha usato infatti l’occasione della prima udienza di questo nuovo anno per dire: “Ricordo un aneddoto che raccontava un vecchio missionario al riguardo di una donna che andò a confessarsi e incominciò a dire gli sbagli del marito, poi passò a raccontare gli sbagli della suocera, poi quelli dei vicini… a un certo punto il confessore le ha chiesto: Signora, mi dica, ha finito? Bene, ha finito con i peccati degli altri, adesso cominci a dire i suoi peccati…”. Il perdono di Dio non è per il presuntuoso, ha proseguito Bergoglio, “sazio com’è della sua presunta giustizia”.
Nella sua “sobrietà”, ha detto il Papa, l’atto penitenziale favorisce l’atteggiamento con cui disporsi a celebrare degnamente i santi misteri, ossia riconoscendo davanti a Dio e ai fratelli i nostri peccati. L’invito del sacerdote infatti è rivolto a tutta la comunità in preghiera, perché tutti siamo peccatori. Che cosa può donare il Signore a chi ha già il cuore pieno di sé, del proprio successo? “Nulla, perché il presuntuoso è incapace di ricevere perdono, sazio com’è della sua presunta giustizia. Al contrario, chi è consapevole delle proprie miserie e abbassa gli occhi con umiltà, sente posarsi su di sé lo sguardo misericordioso di Dio. Sappiamo per esperienza che solo chi sa riconoscere gli sbagli e chiedere scusa riceve la comprensione e il perdono degli altri”.
C’è qui tutto il senso di una Chiesa che riscopre la sua vera natura, quella di facilitare la riconciliazione del peccatore con Dio, visto che l’etica cristiana non è “non cadere mai”, ma rialzarsi sempre, ma non perché siamo “bravi”, ma perché c’è qualcuno che ci aiuta. Ecco perché questo riguarda anche l’uomo moderno, e la Chiesa dal Concilio Vaticano II, salutando la precedente visione, coopera anche con lui, con l’uomo moderno. Ma questa riconciliazione per certo cattolicesimo preconciliare è da evitare, perché lì si concepisce la Chiesa come tutt’altro, magari come una cittadella assediata proprio dal mondo moderno. Questo mondo moderno infatti avrebbe un disegno chiaro, evidente: quello di disgregare l’autorità ecclesiale nello stabilire le regole per ottenere la vita eterna e offrire alla collettività il solo assetto sociale ammissibile. Ecco perché nessuna cooperazione è lecita, significherebbe offrire il sigillo ecclesiastico a chi vuole distruggere la Chiesa. Rifiutando di sottostare ai dettati delle gerarchie questa convivenza porterà infatti alla dannazione. Dunque ragionando in questo modo, esprimendo un’epoca in cui non si riconosceva la libertà religiosa, nessun cambiamento è possibile, lecito, e il rispetto del dettato della gerarchia è più importante dei reali comportamenti.
Tutto questo però ha poco a vedere con una Chiesa agente del Dio della Misericordia, che non può essere chiusa nel suo recinto contro il disordine moderno, ma in uscita, verso quest’uomo, questo tempo, nel quale e con il quale capire il Vangelo. Volendo esagerare, potremmo chiedere: se Gesù ha detto che il giorno del riposo è il sabato, perché dopo la sua resurrezione domenicale quel giorno è stato spostato alla domenica senza un apposito decreto? Per una migliore comprensione del testo, probabilmente. Ma se nel primo numero della “Civiltà Cattolica” – pubblicato nel 1850 dopo revisione degli scritti da parte della Segreteria di Stato – si afferma che la libertà di stampa è uno dei mali della modernità, non andava meglio compreso anche questo rapporto?
La visionarietà appassionante dell’idea che quelli da confessare sono i nostri peccati e non quelli altrui è esaltata da un certo senso di tetragona certezza presente in un testo diffuso, proprio nelle ore in cui parlava Papa Francesco, da tre vescovi del Kazakistan, e subito sottoscritto da alcuni prelati italiani. Vi si legge: “La Chiesa di Cristo, fedele custode e garante dei dogmi a lei affidati, non ha mai apportato modifiche ad essi, non vi ha tolto o aggiunto alcunché, ma trattando con ogni cura, in modo accorto e sapiente, le dottrine del passato per scoprire quelle che si sono formate nei primi tempi e che la fede dei Padri ha seminato, si preoccupa di limare e di affinare quegli antichi dogmi della Divina Rivelazione, perché ne ricevano chiarezza, evidenza e precisione, ma conservino la loro pienezza, la loro integrità e la loro specificità e si sviluppino soltanto nella loro propria natura, cioè nell’ambito del dogma, mantenendo inalterati il concetto e il significato” (Pio IX, bolla dogmatica Ineffabilis Deus).“Quanto alla sostanza stessa della verità, la Chiesa ha, dinanzi a Dio e agli uomini, il sacro dovere di annunziarla, d’insegnarla senza alcuna attenuazione, come Cristo l’ha rivelata, e non vi è alcuna condizione di tempi che possa far scemare il rigore di quest’obbligo. Esso lega in coscienza ogni sacerdote a cui è affidata la cura di ammaestrare, di ammonire e di guidare i fedeli” (Pio XII, discorso ai parroci e ai quaresimalisti, 23 marzo 1949).
Il bisogno di certezze eterne e indiscutibili è diffuso in questi tempi di chiusura, ed è proprio di tutti i letteralismi, nei quali ovviamente i custodi di ogni ortodossia giudicano gli altri, ovviamente, mai se stessi.