Il lavoro è giustamente tema centrale nel confronto elettorale. Ma fare lavoro presuppone innanzitutto una crescita che non sia solo indotta dalla domanda estera. E la componente interna della crescita significa in buona parte ripresa delle costruzioni dopo i lunghi anni di paralisi delle opere pubbliche e del mercato immobiliare.
Per cui ecco una prima politica per il lavoro: liberiamo gli investimenti pubblici dall’approccio tutto regolatorio all’anticorruzione e riduciamo la pesante pressione fiscale su case, negozi e capannoni. Fare lavoro significa anche alzarne la produttività dopo una lunghissima fase di declino. Ma questo significa liberare i rapporti di lavoro da ogni rigidità centralistica per consentire che in azienda datori e lavoratori colleghino quote importanti del salario ad obiettivi di efficienza e di incremento delle competenze.
Per cui ecco una seconda proposta: detassazione secca al 10%, oggi limitata a piccoli importi, per tutti gli aumenti retributivi aziendali, comprese parti del salario da contratto nazionale quando rimesse in gioco per obiettivi di produttività. Fare lavoro vuol dire ancora rimuovere ogni timore di vincolo indissolubile finché morte o pensione non separino.
Il governo Macron è arrivato a fornire i moduli per rendere certe e semplici le modalità di licenziamento e a imporre un tetto agli indennizzi. Qui si estenda almeno il nuovo art.18 del job act, applicato oggi solo ai nuovi assunti, a tutti i dipendenti. Magari con clausola di opting out, come in Germania e Francia, per cui ogni condanna alla reintegrazione sia convertibile in adeguato indennizzo. Per il secondo peggiore mercato del lavoro in Europa quanto a tassi di occupazione, potrebbero essere ipotesi utili a spezzare un’atavico rattrappimento.