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Rileggere “Internet e comunicazione politica” di Palmieri

palmieri

Molte analisi sulla situazione politica italiana di questi anni hanno messo in luce l’assenza di un “posizionamento su internet” degno di questo nome.
In particolare, nel campo della destra politica ci muoviamo ancora in una fitta “nebbia di guerra”.

Eppure, dato lo stato dell’arte, chi ha un’identità digitale potrebbe aspirare a spazi di agibilità politica di primo piano. Risultano essenziali per l’area del centrodestra, quindi, “manuali” che, oltre ad una solida base teorica, mostrino operativamente come si può essere sulla Rete.
E’ prezioso quindi il contributo che Antonio Palmieri fornisce in “Internet e comunicazione politica” edito per la FrancoAngeli.

Se, come recita la citazione in esergo, “parlare di tori non è come essere nell’arena” l’esperienza più che ventennale di Palmieri permette di valutare le sue affermazioni tramite casi di studio descritti dettagliatamente.
Più che casi di studio, sono episodi, veri, autentici, di chi ha masticato realtà e campagne, ricordandosi sempre -con la praticità semplice di chi la politica la vive con passione- che siamo sul web non per l’aumento dei followers ma per costruire il consenso verso di noi o il movimento/partito che rappresentiamo.
Una biografia a carattere pedagogico, per dirla provocatoriamente.
Strutturato in 4 parti, il volume dedica nel primo capitolo un ampio spazio ai principi base della comunicazione politica, soffermandosi sull’uso dei media web da parte dei partiti e dei leader di governo o di opposizione e su come impostare le campagne elettorali.
Nell’ultima, consigli sul proprio posizionamento online si alternano a storie e aneddoti.
Scritto, come dice l’autore nell’introduzione, per “chi fa politica ad ogni livello” utilizzando un linguaggio semplice con suggerimenti concreti.

Siamo nell’era digitale: con internet non si vince, ma senza si perde.
Con un altro efficace “soundbite” dell’autore, la politica è comunicazione e la comunicazione è politica.

Prima dell’avvento di Internet, si usavano gli “old media”: giornali, radio, televisione.
Canali unidirezionali, che si rivolgevano ad un unico “popolo-massa”.
Con l’avvento della tecnologia, è stato possibile diversificare i prodotti segmentandoli fino ai gusti personali.
In passato i mezzi di comunicazione più popolari, ovvero radio e Tv, cercavano di presentare i vari contenuti in maniera pacata per raggiungere un unico scopo: quello di provare a piacere a tutti. I nuovi media invece – e con essi i vecchi media rinnovati – modellano i propri contenuti sulla base dello specifico segmento di audience che intendono raggiungere.
Dal costume alla politica.
Se le grandi narrazioni del ’900 si rivolgevano indistintamente a comunità nazionali o internazionali, la politica nell’era digitale si rivolge a comunità limitate, perfino ai singoli.
Passiamo sui social network 8 ore al giorno, secondo gli studi.
Walter Quattrociocchi ha analizzato più di 376 milioni di utenti Facebook incrociandoli con più di 900 giornali e sistemi di produzione di notizie.
Quattrociocchi dimostra che la teoria della “esposizione selettiva” domina il consumo di notizie e crea diversi ambienti segregati e non comunicanti basati su diversi pregiudizi e diversi conformismi: è una società a “bolle”, a camere non comunicanti in cui i suoni che emettiamo ritornano a noi stessi in un continuo confermare le nostre credenze (immaginiamo due cerchi: uno, i fatti; l’altro, le nostre convinzioni. Intersechiamo i fatti che dimostrano le nostre convinzioni. Prenderemo ad esempio come fattualità solo la parte intersecante).
Delle “eco-camere”.

Non è questo il luogo per valutazioni morali.
E’ piuttosto interessante rilevarne l’opportunità per chi si occupa di consulenza politica o ne è coinvolto in prima persona.
La grande mole di dati che è possibile ottenere dalle nostre interazioni può garantire una raffinazione del messaggio elettorale e una capacità mobilitante senza precedenti.
Prendiamo il caso statunitense descritto da Palmieri.
Negli Stati Uniti si unisce la tradizionale abitudine del porta a porta, le possibilità organizzative offerte dalla rete e la capacità di raccogliere ed elaborare una mole di dati sui comportamenti dei cittadini tali da profilarli ad uno ad uno.
Una “tradizione”: già utilizzati ampiamente dallo stratega repubblicano Karl Rove nel 2004, Obama -raccontano i giornalisti- è stato circondato per più di anni (prima delle elezioni del 2012) da più di 100 fra figure preposte alla raccolta e analisi dei dati.
Ciò ha permesso di “microtargetizzare” fino all’estremo incrociando comportamenti politici, economici, sociali raggiungendo la singola individualità permettendo un maggiore afflusso di donatori -raddoppiandolo- e di scovare nuovi elettori.
Un uso così pervasivo che Obama fu definito “The big data President”.
Negli USA, c’è quasi un rispetto religioso verso gli esperti dei dati, che vengono chiamati “big data evangelists”.
Con notevoli scandali, a volte. Facebook è stata accusata di aver manipolato l’algoritmo per limitare le apparizioni di advertising conservatori nelle scorse elezioni.

Qualcuno ne ha approfittato, gestendo la propria candidatura come una vera e propria campagna di marketing.
“En Marche!”, la piattaforma di mobilitazione della candidatura a Presidente di Emmanuel Macron, ha tutte le caratteristiche di una “start up” politica.
Nata a “tavolino”, dopo un campionamento ampio effettuato con il porta a porta e con un’analisi dei flussi su internet, persino il nome è stato sottoposto a dei focus group.

In Italia, per mancanza di cultura politica e normative stringenti, siamo molto lontani da questo punto.

Sta veramente cambiando il modo di fare campagna elettorale?
Io credo di no.
Un “professionista della politica” deve ricordare che la strutturazione di una campagna è un grande lavoro di “strumenti”: analisi dei punti di forza e di debolezza; identificazione del territorio politico; disegno delle caratteristiche sociali degli elettori; analisi delle conversazioni online e focus group con i diversi target.
E’ però necessaria una dose di “sesto senso” politico che serve a dare “autenticità” al messaggio e a tutta la campagna.
Vincere, quindi, è un’attenta misura di tecnica e passione.
Una visione da “toreri”, come quella di Palmieri. Costruita sul campo, maturata negli anni, grazie soprattutto alla propria personalissima esperienza che in questo libro è raccontata approfonditamente.


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