L’ampia intervista rilasciata ieri da Massimo D’Alema al Corriere della Sera suscita forti perplessità sui suoi contenuti nei lettori più attenti.
Tralasciando di commentare il consueto stile supponente dell’autorevole uomo politico, colpisce la contraddizione fra il suo chiedere ai dirigenti del Pd di non “farsi reciprocamente del male in campagna elettorale”, e il suo sistematico e quasi ossessivo attaccare Renzi, ora affermando che per “farlo perdere non era necessario fare un nuovo partito” perché “bastava lasciarlo fare da solo”, ora ritenendolo “giovane allievo di Berlusconi impegnato in una gara a chi la spara più grossa”, ora infine additando il “modo disastroso, superficiale e arrogante con cui ha affrontato questioni delicatissime come le riforme.”
Ora, sarà appena il caso di ricordare che il gruppo dirigente del Pd – cui si rivolge l’esponente di Liberi e Uguali chiedendogli di non farsi reciprocamente del male nelle prossime settimane – è in larghissima maggioranza schierato sulle posizioni del segretario che – piaccia o meno a D’Alema e agli altri dirigenti di Leu – ha vinto il congresso della scorsa primavera, e si è affermato alla successiva consultazione del 30 aprile di iscritti, elettori e cittadini con quasi il 70% dei consensi pari a poco più di 1,2 milioni di voti a favore, su 1,8 di quelli espressi. Pertanto la sua rielezione non è stata il risultato dell’accordo di un gruppo ristretto di notabili del partito, ma è scaturita da una larga vittoria al congresso, suffragata poi dal vasto consenso di coloro che sono andati al voto per esprimersi sui risultati dell’assise congressuale. E, vorremmo aggiungere, il gruppo dirigente raccolto intorno alla figura di Matteo Renzi ha votato in Parlamento quelle stesse riforme da lui volute ma realizzate, secondo la valutazione dalemiana, in “modo disastroso.”
Non saranno allora le gelide insolenze di D’Alema che potranno abbattere un segretario rieletto da largo consenso di iscritti ed elettori. E se la speranza fin troppo evidente dell’esponente di Liberi e Uguali è quella che un’eventuale sconfitta del Pd alle politiche porti alla sostituzione di Renzi alla guida del partito, è opportuno evidenziare che allora con lui dovrebbe essere sostituita larghissima parte del gruppo dirigente che ne ha condiviso e ne sta tuttora condividendo le scelte. Sarebbe perciò necessario un nuovo congresso e una nuova consultazione referendaria di iscritti ed elettori.
Sorprende, inoltre, nelle parole di D’Alema la mancanza di una analisi approfondita della società italiana, delle sue attese, delle sue necessità, delle sue urgenze che non sono riducibili solo all’abolizione del jobs act o al cambiamento della riforma della buona scuola, per quanto quelle riforme siano meritevoli di verifica, approfondimento e anche di correzioni già proposte o avviate, ma che non dovrebbero tuttavia snaturarne gli impianti complessivi.
Nulla poi dice D’Alema sulle politiche del governo per l’industria 4.0, nulla dice sulle politiche per il Mezzogiorno – il cui dicastero è guidato da Claudio De Vincenti – misure che lo hanno rimesso in movimento dopo lunghi anni di stagnazione; nulla dice sulla riforma della portualità italiana portata innanzi con successo dal ministro Delrio; nulla dice D’Alema sulle vicende dell’Ilva e sul lavoro svolto al ministero dello Sviluppo economico per fronteggiare con successo decine di vertenze del lavoro che hanno visto impegnata soprattutto il viceministro Teresa Bellanova. Nulla inoltre dice D’Alema sui diritti civili, sulla riforma del terzo settore, e sull’istituzione e il lavoro dell’Anac.
Insomma, le uniche due vere preoccupazioni del leader maximo – come amava farsi definire in passato l’esponente di Liberi e Uguali – sembrano quelle, da un lato, di indebolire Renzi – nella non troppo segreta speranza di contribuire a farlo cadere – e, dall’altro, di ispirare i comportamenti del Presidente Sergio Mattarella chiedendogli di costituire “un governo del Presidente” rispetto al quale posizionare Liberi e Uguali, anche in questo caso con la fin troppo evidente speranza di poter tornare in un esecutivo voluto dal Quirinale e che riceva la fiducia del Parlamento.
E i veri problemi del Paese, allora? Alla prossima intervista. Forse.