I nodi della Brexit stanno per venire al pettine. Anzi qualcuno per la verità è già arrivato. Ci sono almeno due fronti aperti nel Regno Unito, che stanno facendo sorgere più di un dubbio tra i sudditi di sua Maestà. Punto primo, la questione dei dazi sulle merci esportate all’indomani della conclusione formale della Brexit (primavera 2019). Secondo, il crollo disatteso delle principali major inglesi, le più public company. Risultato, in questo inizio d’anno la tensione oltremanica sta salendo vertiginosamente. Ecco perché.
IL WARNING DI BANKITALIA
La questione degli scambi stata nuovamente sollevata in questi giorni da uno studio (qui il testo) di Bankitalia. L’accordo con Bruxelles per il libero scambio, se mai ci sarà, è ancora lontano e allora meglio prepararsi al peggio. Se davvero le imprese britanniche dovranno pagare dei dazi (ipotizzabili al 5%) per vendere i propri prodotti in Europa (e viceversa, con tariffe sulle merci in entrata in Gran Bretagna) questo potrebbe avere delle conseguenze. Per esempio “ridurre le vendite di beni e servizi all’estero e l’attività economica del Regno Unito” si legge. Di qui il possibile effetto a cascata. “Se alla minore apertura commerciale si accompagnasse una diminuzione della produttività, il Pil britannico diminuirebbe in misura molto più significativa”.
CHE COSA RISCHIA LONDRA
Qualcosa però si potrebbe fare per mitigare gli effetti commerciali della Brexit. “I costi macroeconomici sarebbero più contenuti se il Regno Unito decidesse unilateralmente di non imporre dazi sulle importazioni dalla Ue e di ridurre quelli sulle importazioni dal resto del mondo”. Londra insomma dovrebbe fare il primo passo con l’Ue e dire fin da subito che non ci saranno dazi sui prodotti importati. Pena, vedersi il prodotto interno lordo clamorosamente schiacciato proprio dai dazi in entrata e uscita.
EFFETTO DOMINO SULLE MAJOR UK?
Fin qui le questioni più contabili. Poi ci sono quelle industriali. E anche qui sono dolori. Proprio due giorni la maggiore azienda inglese di appalti pubblici, Capita, ha perso in Borsa quasi al metà del suo valore, il 45%. E questo perché è emerso che il gruppo con sede a Londra e clienti del calibro dello stesso governo britannico o gruppi privati come O2, controllata da Telefonica, o la catena di supermercati Marks & Spencer, ha bisogno di 700 milioni di sterline di denaro fresco (quasi 796 milioni di euro). Vista la quasi impossibilità di ottenere un prestito pubblico, Capita dovrà necessariamente reperire le risorse vendendo delle sue attività non principali.
IL PRECEDENTE DI CARILLON
Un caso molto simile a quello di due settimane fa che ha visto il collasso del gigante dell’edilizia Carillon, collassato dopo il no del governo a un prestito ponte per tentare il salvataggio. Già questa settimana i deputati inglesi potrebbero andare in pressing sulla premier Theresa May per capire che cosa stia succedendo all’industria britannica.
COLPA DELLA BREXIT
Il crollo delle major britanniche è in qualche modo connessa alla Brexit? Secondo gli analisti di Jefferies, sì. Il fatto è che il referendum sulla Brexit ha avuto un impatto negativo sui principali contratti che tengono in piedi queste società. Nel caso di Capita e Carillon, gli accordi dei clienti aziendali, cioè quelli tradizionalmente più fedeli, si sono via via sempre più ridotti proprio a partire dal luglio 2016, nelle settimane successive al no inglese all’Europa (23 giugno). Nessuno, è l’analisi, se l’è sentita di stipulare contratti pluriennali con aziende all’interno di un perimetro economico ancora tutto da definire.