L’esito delle elezioni alla vigilia è sempre incerto. E lo è ancora di più quando la legge elettorale è nuova, quindi non sperimentata, e in lizza vi sono tre poli. Anzi, in quest’ultimo caso l’eventualità che si giunga ad un’impasse è quella su cui non varrebbe la pena neanche scommettere perché si guadagnerebbe poco dato l’alta probabilità di riuscita.
È vero, d’altronde, cosa ribadita da più parti nel centrodestra, che solo la coalizione Fi-Nci-Lega-Fdi potrebbe teoricamente varcare la soglia della maggioranza assoluta. Tuttavia è intelligente riflettere sullo scenario che, come si diceva, a prima vista sembra praticamente alle porte, vale a dire che in Italia il 5 marzo, giorno dopo delle elezioni, vi sarà un Parlamento non dotato di una maggioranza politica di alcun genere.
A questo si unisca una nota tecnica: le percentuali che emergono oggi dai sondaggi aggravano la circostanza, perché mostrano una composizione degli emicicli difficilmente componibile in modo semplificato. Il Corriere della Sera offre stamani un quadro plastico nel quale la somma scomposta di forze politiche affini, seppure presenti in diversi schieramenti concorrenti, darebbe garanzie minime di maggioranza: Forza Italia più il Pd arriverebbero poco sotto il 40%, Lega più M5S poco sopra il 40 %.
Contando che mai la destra e la sinistra andrebbero insieme, che tipo di soluzione potrebbe essere valutata dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella?
La prima osservazione dovuta, nonostante sia scontata, è che il nostro sistema parlamentare non prevede vincoli di mandato ai parlamentari. Se non fosse così, il sistema non sarebbe funzionale, e i padri costituenti sarebbero stati sciocchi. Per cui la maggioranza politica dovrà essere frutto dei negoziati che verranno fatti dopo il voto (negoziati e non inciuci, ci tendo a precisare) e della rapidità con cui la politica nel suo insieme prenderà atto responsabilmente della situazione concreta creatasi nel Paese.
Mattarella, oltretutto, non può sciogliere prima di aver valutato in tutti i modi la possibilità di una maggioranza legislativa. E questo tipo di percorso prevede sicuramente che a tentare l’impresa sia il gruppo parlamentare in possesso della maggioranza relativa, oppure una figura ritenuta idonea dal Quirinale per esplorare possibili convergenze di altro tipo.
Perciò si comincia seriamente a parlare ovunque di una larghissima coalizione. Il termine è esatto perché avrebbe un arco di partecipazione più esteso rispetto addirittura alla convergenza molto ampia che ebbe nel 2013 il governo presieduto da Enrico Letta.
Certo, non è facile mettere insieme LeU, Pd, centristi e Forza Italia; ma, in fin dei conti, non si riesce a vedere altra strada possibile al di fuori di questa, a meno di non ritornare alle elezioni con in carica ancora il governo Gentiloni per avere tuttavia un risultato verosimilmente identico a quello precedente.
La prima tesi da mettere da parte è definire un’eventuale amplissima maggioranza di questo tipo come un governo tecnico. Si tratterebbe, infatti, comunque di un governo politico, con dentro precisamente politici e non esperti estranei al gioco delle parti. In secondo luogo vi sarebbe anche la prospettiva positiva di garantire al Paese un esecutivo, creando una convergenza magari su una sola idea fondamentale.
La nazione è divisa, non esiste una maggioranza univoca, ma tutte queste forze eterogenee e diverse, perfino in contraddizione tra loro, decidono di stare in una stessa maggioranza per evitare il default del sistema e per mettere all’opposizione componenti diversamente estreme e maggiormente incompatibili con la governabilità.
In tal senso tra M5S e Lega vi sono più di qualche affinità. Ad esempio l’antieuropeismo, sia pure astutamente attenuato, un’idea di rottura con la democrazia rappresentativa e un riconoscimento scarso del carattere gestionale che deve avere un governo repubblicano. Come spiegava Max Weber l’idea del “tutto o niente” implica sempre una riserva sui tempi realistici che la Costituzione prevede, la quale spinge invece verso il principio opposto del “qualcosa e non tutto”.
Un esecutivo di larghissime intese sarebbe conforme alla formula moderata del “governo di difesa istituzionale”, nel quale, magari in tempi ravvicinati si creino le condizioni per tornare al voto con la sicurezza però che una maggioranza politica possa uscire dalle urne. In questione non è solo la legge elettorale, ma, come si sarebbe detto in un’altra epoca, quello da permettere una “maturazione evolutiva del quadro politico”.
Ovviamente chiamato ad adempiere un fine tanto arduo, non immune da una sofferta sospensione di qualsiasi portata massimalista propria di un programma unico ed esclusivo, avrebbe bisogno di una leadership adeguata ed esperta.
Essendo, d’altronde, il centrodestra probabile vincitore morale, sarebbe giusto che a guidare le sorti del Paese in questa transizione fosse una persona navigata, pratica e vicina a Silvio Berlusconi, in condizione di poter dialogare e tenere insieme anche la parte a sinistra del Pd difficilmente addomesticabile, benché già disponibile ad un governissimo, come si evince dalle dichiarazioni di Massimo D’Alema.
La prospettiva, dunque, di larghissime intese per un governo di difesa istituzionale con la guida, ad esempio, di Gianni Letta, non la si può escludere, non può essere auspicata come la migliore sorte della legislatura, ma non dovrebbe essere scartata pregiudizialmente a priori, se i numeri non dovessero permettere temporaneamente niente di altro.