Gli italiani si sono pronunciati. Votando contro. Non a favore di qualcuno o qualcosa, ma contro qualcos’altro.
Qualcuno contro il presunto populismo e razzismo, senza comprendere le ragioni più autentiche di un sentimento di smarrimento generalizzato. La maggior parte contro il sistema; contro l’autoreferenzialità della politica; contro un Segretario PD che ignora deliberatamente la debacle personale del referendum costituzionale e che ha personalizzato sempre più le sfide elettorali, dando sempre più al partito i connotati di un gruppo di amici fedeli, più che quelli di una forza politica di sinistra (che peraltro aveva già perso da tempo); contro il simulacro di una destra di governo che rispolvera il suo leader di un quarto di secolo prima, non più capace di intercettare interessi e sentimenti profondi della società italiana. Contro la paura; quella generica del futuro e quelle più specifiche dell’impoverimento, delle grandi sfide poste dai fenomeni migratori, dai cambiamenti imposti dalla globalizzazione. Grandi cambiamenti che la classe politica italiana ha preferito ignorare, al massimo cavalcare come slogan elettorali, piuttosto che guidare.
Ha punito un’intera classe dirigente che dall’inizio della seconda repubblica non ha fatto altro che guardare ai suoi risultati ed interessi personali, in gran parte infischiandone di un paese rimasto senza una vera guida politica.
Non è possibile sapere oggi chi potrà governare questo paese; e se lo farà con delle minime prospettive strategiche, orientate al lungo periodo, o solo per metter mano alla legge elettorale. Se il Presidente della Repubblica darà un mandato esplorativo al partito (M5S) o alla coalizione (Centrodestra) che ha ottenuto più voti. E se qualcuno avrà davvero delle ragionevoli chance di formare una maggioranza stabile o un governo di minoranza in grado di raccogliere sufficienti consensi in Parlamento.
Sappiamo però che chiunque guiderà il paese avrà di fronte a sé due agende irrinunciabili. Primo: ristabilire la fiducia degli italiani nei confronti della politica, presupposto anche per rimanere agganciati alla ripresa economica europea, a sua volta essenziale per stabilizzare e migliorare quei dati sulle performance macroeconomiche che i mercati sono pronti a cogliere per rendere la vita difficile al paese (lo spread, ad esempio). Secondo: negoziare in maniera credibile con il rinnovato motore franco-tedesco le clausole di una nuova e più efficace convivenza civile in Europa.
Sul primo punto il M5S non parte al meglio. Le imbarazzanti incertezze amministrative a livello locale, la finta trasparenza nella selezione dei leader, le tematiche surreali di cui troppo spesso si sono occupati (vedasi le scie chimiche ed altri complottismi analoghi) non fanno certo stare tranquilli. E le coperture finanziarie del reddito di cittadinanza (su cui si è basata gran parte della battaglia elettorale pentastellata) sono ancora tutte da dimostrare. Scopriremo forse nei prossimi mesi qual è l’entità dei moltiplicatori fiscali in questa fase della congiuntura economico-politica del nostro paese: se cioè una manovra espansiva sulla domanda impatti positivamente sul reddito in maniera sufficiente a far ripartire l’economia in modo stabile ed allo stesso tempo fornire base imponibile per la riduzione del debito pubblico; come scopriremo se il potere d’acquisto verrà invece eroso da un rialzo generalizzato dei prezzi.
Certo, il M5S potrebbe cercare una sponda nella Lega, ben radicata nell’amministrazione del territorio e con piattaforme politico-economiche non troppo distanti. Anche se conciliare reddito di cittadinanza e flat tax al 15% appare arduo…
Sulla riforma dell’eurozona e della Ue il compito è per molti versi ancora più complesso, ed allo stesso tempo inevitabile. Ieri è stato ufficializzato il dato del referendum nella base SPD, i socialdemocratici tedeschi. Un risultato che da il via libera alla Große Koalition per il governo del paese. E soprattutto, visto che è il primo punto del contratto di coalizione, per rilanciare l’integrazione europea in una direzione di minore austerità e condivisione della sovranità in poche ma cruciali aree della politica. Il motore franco-tedesco si appresta dunque a rimettersi in moto. Chi vorrà partecipare alle trattative per cambiare la governance economica e politica della Ue (pena la marginalizzazione dalle grandi dinamiche di potere a livello mondiale), dovrà fornire credenziali di credibilità e stabilità politica. E soprattutto dovrà dimostrare di avere le idee chiare sul fatto che non è l’euro il responsabile della crisi asimmetrica che ha colpito l’eurozona, ma la mancanza di una fiscalità perequativa europea e di un bilancio per il rilancio di investimenti in beni collettivi europei (reti infrastrutturali di comunicazione e trasporto, innovazione e ricerca, energia). Che non è l’illusoria difesa della sovranità nazionale che permette di soddisfare i bisogni dei cittadini, ma la creazione di spazi di sovranità a tutti i livelli, da quello locale a quello sovranazionale. E che l’Europa dei mercati e delle banche, che penalizza i cittadini, è il risultato proprio dell’allontanamento della politica dagli spazi di potere sovranazionale dove si concretizzano le vere sfide economiche e politiche internazionali. Che per scacciare il pericolo di un’Europa neoliberale l’unico antidoto è la democrazia sovranazionale, non rinchiudersi nel proprio orticello.
Il M5S ha cercato di accreditarsi negli ultimi mesi, con Di Maio, come forza di governo. Adesso, forte di un 32% dei consensi, deve dimostrare che è in grado davvero di compiere quella trasformazione, individuando urgentemente una classe dirigente e politica all’altezza in termini di competenze, trasparenza, concretezza, pragmatismo, caratura internazionale necessari per portare l’Italia a riprendere fiducia in sé stessa e l’Europa verso una radicale trasformazione in una genuina democrazia multilivello.