Non capita tutti i giorni di assistere a un riassetto della macchina pubblica di tali dimensioni. In Cina, a volte sì, soprattutto se al potere c’è Xi Jinping (nella foto), l’uomo destinato a reggere le sorti dell’ex Celeste Impero per ancora molti anni e che qualcuno ha già accostato al padre della Repubblica popolare, Mao. Il fatto è che Pechino ha appena annunciato nell’ambito della quarta assemblea plenaria dell’Assemblea del popolo, una riorganizzazione sul larga scala della Pubblica amministrazione cinese. Ministeri, commissioni, autorità di vigilanza centrali e periferiche, tutto ridisegnato e riprodotto con una nuova architettura con cui aumentare l’influenza del Partito sull’apparato statale.
Una mossa in evidente chiave politica visto che l’obiettivo nemmeno troppo celato del leader cinese è quello di aumentare il controllo dello Stato centrale sulle organizzazioni statali. In mezzo, anche misure ad hoc per fronteggiare situazioni di potenziali crisi industriali, come già accaduto nel caso del gigante assicurativo Anbang (qui lo speciale di Formiche.net).
Il punto di partenza della riforma di Xi Jinping è il taglio dei ministeri, accompagnato dalla creazione di nuovi dicasteri, come quello per le risorse ambientali a conferma della vocazione ambientalista di Xi Jinping. Il maxi-riassetto pubblico prevede poi l’introduzione di una nuova Commissione di Supervisione nazionale, chiamata a vigilare su tutte le attività dello Stato ai primi livelli. Altro cardine della riforma della burocrazia cinese, la fusione delle commissioni di vigilanza del sistema bancario e di quello assicurativo. Anche su quest’ultimo punto l’intento di Pechino è chiaro. Aumentare il grip della vigilanza finanziaria su aziende e istituzioni, allestendo un organismo unico e non diversificato.
La riforma della vigilanza prevede infatti la fusione della Commissione di regolamentazione dell’attività bancaria cinese (Cbrc) e della Commissione di regolamentazione dell’attività assicurativa in un singolo ente con poteri più ampi che risponderà direttamente al Consiglio di Stato per il controllo di un settore che vale 42mila miliardi di dollari. Il nuovo organismo andrà ad affiancarsi al Comitato per la stabilità finanziaria e lo sviluppo, istituito lo scorso anno. Tutto questo per rafforzare il controllo centrale sulle istituzioni finanziarie del Paese e ridurre così i rischi finanziari sistemici comportati dall’elevato indebitamento di aziende e amministrazioni locali.
“Non c’è dubbio che il nuovo regolatore avrà più poteri dei due precedenti combinati”, ha commentato in proposito Liao Qun, economista della banca pubblica cinese China Citic Bank International. Con la fusione della China Banking Regulatory Commission e della China Insurance Regulatory Commission, il nuovo ente riferirà direttamente al Consiglio di Stato, mentre alcune delle funzioni dei due enti, tra cui quella di stendere le regole chiave di regolamentazione finanziaria, saranno trasferite alla banca centrale cinese che acquisirà un maggiore ruolo rispetto all’attuale sotto la nuova dirigenza.
Rimanendo sempre nel campo della vigilanza, al momento non sono stati previsti interventi sulla Consob cinese, la China Securities Regulatory Commission, già nel mirino delle autorità durante l’estate del 2015, per i ripetuti crolli delle Borse cinesi. Anche la Sasac, l’ente a supervisione degli asset delle aziende di Stato, non viene menzionato nella riforma, mentre appare depotenziata appare soprattutto la Commissione nazionale per lo sviluppo e le riforme, l’agenzia di pianificazione economica, che dovrà cedere parte delle sue funzioni e competenze ai nuovi ministeri.
Enrico Fardella, professore alla Peking University, spiega a Formiche.net il senso politico e storico della riforma. “Come ha detto Liu He (economista e membro del Polibturo cinese, ndr) è una riforma rivoluzionaria, la più importante da quella degli anni 90 realizzata da Zhu. L’analisi matura sull’impatto istituzionale di queste trasformazioni ha bisogno di tempo”. Una riforma che esprime la visione politica di Xi. “Il primo effetto è sicuramente quello di fare di Xi un riformatore rivoluzionario, ossia una sintesi hegeliana tra Mao il rivoluzionario e Deng il riformatore. La rivoluzione in Cina oggi si fa con le riforme non più con le mobilitazioni di massa. Questa ha favorito la socializzazione con il resto del mondo a partire agli anni 80”.
Ma attenzione a non fare della riforma un pericolo ritorno del totalitarismo stile Mao. “Bisogna augurarsi che l’accentramento dei poteri di Xi, che precede e ispira queste trasformazioni, sia funzionale alla prosecuzione di questo processo virtuoso. L’alternativa sarebbe insidiosa e prodromo di pericolose tensioni globali”.