L’odore acre e disgustoso delle armi chimiche ha accompagnato i siriani nel loro ottavo anno di conflitto. Un conflitto che non abbiamo capito. Chi già all’inizio ha provato ad aprirci gli occhi sulla natura di questa devastante carneficina è stato un grande italiano, padre Paolo Dall’Oglio, avvertendoci per tempo che non era la dialettica classica del buono contro cattivo quella che ci avrebbe consentito di capire. Molti atti, poco citati, di papa Francesco, come la lettera privata al presidente Assad del 2016 , nella quale condanna “il terrorismo da qualsiasi parte provenga”, dimostrano che tra i pochi che avevano ascoltato ed elaborato l’appassionata perorazione della causa del popolo siriano del gesuita romano è stato proprio Jorge Mario Bergoglio.
Il 15 marzo del 2011, per la prima volta nella storia, alcuni sudditi della dinastia degli Assad osavano osato manifestare in pubblico il loro dissenso. Una decina o poco più di siriani, infatti, proprio quel giorno si riunirono addirittura davanti al palazzo simbolo del terrore. E’ cominciato così, con un semplice sit in, il conflitto siriano, o siro-iracheno, che ha sconvolto tutto il Medio Oriente, il Nord Africa, la stessa Europa, con attentati terroristi, nuove sigle del terrorismo, milioni di profughi, odio, paura, e altro ancora. Abituati a ragionare in termini di amico e nemico, non abbiamo capito il conflitto siriano da quando è finita la fase lineare, lo scontro tra la feroce repressione operata dal regime e le manifestazioni di piazza, pacifiche, pluraliste e non violente, che si ostinavano a chiedere libertà e dignità. Da allora non abbiamo più potuto capire perché dal 2012 quel conflitto ha seguito la logica del deserto, a noi sconosciuta del deserto, per la quale chi non sa cavalcare due cavalli è destinato a perire. Ecco allora che il grande equivoco, regime contro terroristi dell’Isis, ci ha portato sulla strada scelta dal regime, l’unica capace di salvarlo. Per capirci occorre partire da un parola, “propaganda”. Ciascuno di noi ha familiarità con la “propaganda”, una parola introdotta nei nostri vocabolari dai tempi della guerra dei trent’anni. Ma non siamo abituati all’idea che la propaganda possa capovolgere i fatti, attribuendo all’altro le nostre azioni. In Siria invece è così dal 1970, da quando gli Assad sono al potere. Questo capovolgimento della realtà è arrivato in questi ultimi tempi ad attribuire ai “caschi bianchi”, il corpo di volontari che soccorrono la popolazione civile sotto le macerie dei bombardamenti, la paternità e responsabilità di quelle distruzioni.
Ma quella del capovolgimento della realtà nella sua rappresentazione è la storia moderna della Siria; un regime costruito anche con l’ausilio del gerarca nazista Alois Brunner, ospitato fino alla fine dei suoi giorni, è stato presentato come “socialista”, un regime costruito su base clanico e settaria è stato presentato come “laico”, un regime basato sull’esproprio delle ricchezze nazionali, tanto che la rendita petrolifera non figura nel bilancio ufficiale dello Stato e un parente del presidente, Rami Makhlouf, è più ricco del famosissimo principe-magnate saudita, Walid bin Talal, è stato presentato come anti-capitalista. Solo così si può capire come mai la storia del conflitto, radicalmente cambiata dopo l’ingresso sul teatro siro-iracheno, del mostro Isis, non possa essere letta come vorrebbe il regime, cioè in una scontro tra il regime e l’Isis, ma in molto molto più complesso, e in questa complessità alle origine dell’Isis non si può che scorgere la connivenza.
Bisogna tornare al 2005 per trovare un bandolo di questa connivenza che ha letteralmente salvato il regime, visto che prima della comparsa dell’Isis il destino del regime sembrava segnato. Ma già nel 2005, anno in cui il regime siriano avrebbe ordinato al potente alleato libanese Hezbollah di eliminare l’ex premier libanese Rafiq Hariri per mantenere la colonizzazione del Libano e togliere ai sunniti la loro leadership moderata, uno dei pilastri del regime venne trasferito al teatro libanese a quello iracheno. Si tratta di una figura di spicco del complesso mondo degli apparati di sicurezza siriani, Ali Mamlouk. In quel periodo questo esponente della vecchia guarda fedelissima ad Assad padre fu incarico di soprassedere ai viaggi di molti “jihadisti” siriani verso l’Iraq, ovviamente in funzione anti-americana e per evitare che gli statunitensi dopo l’Iraq potessero prendere di mira la Siria. Impantanarli in Iraq era fondamentale per il regime e i jihadisti erano l’arma migliore. L’invasione dell’Iraq era cominciata da due anni e le Ratline predisposte dal regime siriano avrebbero facilitato l’afflusso di combattenti e jihadisti da tutto il mondo arabo-islamico. Mamluk coordinava il reclutamento a partire dalle carceri siriane, aggiungendo che alcune stime indicano che in quegli anni il governo siriano abbia inviato in Iraq a sostenere la “resistenza” irachena migliaia di jihadisti. Poi molti nuovi jihadisti hanno riempito di nuovo i lager siriani, ma quei centri di detenzione nel nuovo scenario post 2011 servivano per liberarsi dei giovani, democratici e non violenti: meglio liberare i primi e sostituirli con i secondi. E così è stato, grazie alla strana amnistia, o decreto svuota carceri, del 2012. Di lì a non molto tempo cominciò una guerra strana, quella tra Isis e regime siriano, una guerra che quasi mai ha visto i due nemici combattersi apertamente, come dimostra anche la storia della cooperazione diretta nella gestione del principale campo petrolifero e di raffinazione del petrolio, finito in territorio dell’Isis ma gestito da una società siriana registrata a Mosca. E che in epoca Isis ha seguitato a lavorare sotto i nuovi padroni, pagandoli profumatamente.
Ancor più strana è stata la conclusione di alcune battaglie, come quella di Arsal, dove i jihadisti dell’Isis dopo aver combattuto con l’esercito libanese per anni hanno trattato la resa con Hezbollah e sono stati da loro riaccompagnati, loro e i loro familiari, in confortevoli autobus, chissà dove. Altre battaglie si sono concluse con analoga, surreale cortesia verso gli sconfitti.
Ma tutto questo non ci ha consentito di capovolgere un racconto capovolto, quello della storia di un regime e di un conflitto che ha raso al suolo tantissime città , abbattute sulle teste dei loro abitanti, convincendoci che erano stati loro stessi a farlo, contro sé stessi. .
Tutto questo è accaduto in una terra cruciale per tutto il Mediterraneo, crocevia di popoli, storie, culture e tragedie: la Siria, cuore di quel levante nel quale tante pagine della civiltà del vivere insieme sono state scritte. A partire da questa terra cruciale il regime siriano ha ricreato e capovolto anche il racconto biblico dell’Esodo, della fuga dall’Egitto. Un intero popolo è stato questa volta costretto a fuggire, ma la storia capovolta dei motivi della sua fuga ha fatto della nuova Terra Promessa, l’Europa, una Terra Impaurita e ostile ai fuggiaschi, perché in Europa invece che a loro abbiamo ascoltato la propaganda del Faraone.
Ecco che milioni di siriani vagano per gli spazi mediterranei senza altri compagni che la paura. Nei nostri racconti sono spariti i siriani di Damasco, sede del califfato per secoli, e quelli di Aleppo, simbolo dell’accoglienza e dell’ospitalità per gli armeni in fuga dai giovani turchi, o di Palmira, la città che segnava una delle più antiche e importanti tappe sulla via dei commerci transcontinentali. Le uniche distinzioni rimaste sembrano quelle confessionali, e nei nostri racconti seguono quei cristiani di Siria che chiamiamo cristiani d’oriente, trama che cancella tante tradizioni e evoca la vecchia e drammatica “questione d’oriente”. Di loro, dei cristiani d’oriente, sappiamo che avevano una bella cittadina, Maalula, dove ancora si parla la lingua di Gesù, l’aramaico. Strano modo di parlare del cristianesimo siriano, visto che già nel secondo secolo la lettera a Diogneto, autentico tesoro di tutto il cristianesimo, dice: “I cristiani né per regione, né per voce, né per costumi sono da distinguere dagli altri uomini. Infatti, non abitano città proprie, né usano un gergo che si differenzia, né conducono un genere di vita speciale. La loro dottrina non è nella scoperta del pensiero di uomini multiformi, né essi aderiscono ad una corrente filosofica umana, come fanno gli altri. Vivendo in città greche e barbare, come a ciascuno è capitato, e adeguandosi ai costumi del luogo nel vestito, nel cibo e nel resto, testimoniano un metodo di vita sociale mirabile e indubbiamente paradossale. Vivono nella loro patria, ma come forestieri; partecipano a tutto come cittadini e da tutto sono distaccati come stranieri.”
Uno dei tanti esempi di come abbiamo perso contatto con la realtà della Siria, capovolta dal regime degli Assad.