Le elezioni politiche dello scorso 4 marzo non solo non hanno avuto un effetto salvifico sui problemi del Paese–difficilmente sarebbe stato possibile immaginare diversamente – ma, al contrario, ci hanno consegnato un quadro politico–istituzionale estremamente frastagliato che sarà difficile ricomporre. Il responso delle urne, in larga parte previsto, è più netto della composizione parlamentare che ha prodotto. Ci parla di un’Italia stanca, logorata da anni di crisi, dal peggioramento delle condizioni di vita, dalla disoccupazione, dalla precarietà; impaurita dal futuro e priva di speranze. Ma anche di un Paese che disilluso, insofferente alle promesse, sempre più irritato da una classe politica che non è riuscita a dare risposte concrete a problemi e bisogni reali, vuole reagire. Insomma, un’Italia profondamente divisa tra nord e sud, che è unita nella rabbia e che, pensando di non avere più nulla da perdere, prova a cambiare di nuovo dando una fiducia che però è pronta a ritirare immediatamente se il “nuovo” dovesse rappresentare l’ennesima illusione. In questo quadro i partiti, guidati dalla saggia ed esperta regia del Presidente della Repubblica, avranno tutto il tempo che sarà loro necessario per confrontarsi e sbrogliare una matassa che è apparsa immediatamente e chiaramente molto ingarbugliata. La politica, quella dei partiti e delle istituzioni, giustamente dovrà valutare fino in fondo tutte le vie percorribili per uscire dallo stallo ed evitare nuove ravvicinate elezioni niente affatto irrealistiche ma probabilmente non utili. Ma mai, neanche in queste settimane di passaggio, possono essere messi da parte i problemi del Paese a cominciare dall’economia reale e, per quello che ci riguarda più direttamente, dal sistema bancario. Se così fosse, se distratti da lunghe, seppur importanti, discussioni interne ai partiti o sulle future alleanze e composizioni di governo e sottogoverno, non si ponesse la massima attenzione ai problemi dell’economia, i pericoli sarebbero troppo grandi e difficilmente qualcuno si salverebbe. L’agenda dell’Europa, con le sue dinamiche normative e regolamentari, non viene certo congelata dalla crisi della politica italiana. Per non rischiare di pregiudicare una ripresa dell’economia reale che, seppur molto fragile, sembra concreta, è necessario che la posizione dell’Italia con le peculiarità del suo sistema produttivo sia forte e tangibile. Per questo è quanto mai necessario mantenere alta l’attenzione su una serie di tematiche che sono cruciali al fine di evitare, come già avvenuto in passato ad esempio con l’accettazione tout-court delle regole del bail-in o con l’introduzione del fiscal compact, effetti nefasti frutto della sottovalutazione delle conseguenze determinate da decisioni imposte.
In questi giorni la Bce e la Commissione Europea stanno decidendo sugli Npl. Decisioni che possono avere conseguenze rilevanti sull’attività bancaria. Già nei mesi scorsi la Presidente della vigilanza della Bce, Danièle Nouy, aveva mostrato un atteggiamento miope, insistendo su un’applicazione rapida di quello che viene definito “addendum” (maggiori accantonamenti da parte degli istituti bancari a compensazione del livello dei crediti deteriorati) e non tendendo conto delle implicazioni negative che un recepimento, nei tempi rapidi richiesti, di tale direttiva potesse avere sul sistema bancario sia relativamente alla possibilità di erogare finanziamenti sia sulla possibilità di poter collocare i propri Npl a prezzi non troppo bassi o di saldo. Solo i rilievi degli uffici giuridici del Parlamento Europeo e del Consiglio Europeo, che hanno visto nel provvedimento un’invasione di competenze, hanno permesso di attenuare l’applicazione di tale provvedimento. Attualmente la Commissione Europea sta lavorando, ipotizzando per le banche graduali accantonamenti entro 8 anni per i nuovi prestiti garantiti e entro 2 anni per quelli nuovi non garantiti che potrebbero trasformarsi in Npl, mentre la Bce, orientata ad un massimo di 7 anni per gli Npl garantiti, sta sviluppando un testo che sarà poi applicato caso per caso. Insomma, la confusione sembra regnare e quindi massima dovrà essere l’attenzione sulla questione. Resta il fatto che quelle che rischiano di essere maggiormente penalizzate sono le banche italiane che negli anni della recessione hanno continuato a erogare credito al tessuto produttivo, in particolare alle Pmi e alle famiglie e che, ancora oggi, al contrario di quanto avviene in altre realtà europee, continuano a promuovere un’attività bancaria di tipo tradizionale legata al territorio e non incline alla finanziarizzazione e all’operatività sui mercati dei derivati. Su questo sarebbe opportuno che fossero evidenziate le incongruenze derivanti da un’attenzione spasmodica delle autorità di vigilanza sulla necessità di una maggiore solidità patrimoniale da parte delle banche (vedi l’addendum) tralasciando però alcuni elementi importanti quali la classificazione dei titoli di livello 2 e 3 ampiamente detenuti dalle banche tedesche e francesi e che sembrano non destare alcuna preoccupazione per i regolatori. Se si aggiunge l’atteggiamento critico verso la detenzione da parte delle banche di titoli di Stato – con la possibilità di inserire un coefficiente di rischiosità – che vede i nostri istituti di credito in prima linea con circa 330 miliardi di euro, con un’esposizione pari al 240% del Tier1 (secondi solo alla Slovacchia che è al 600%) e la riluttanza tedesca a condividere una garanzia comune dei depositi bancari, risulta evidente come la politica italiana possa e debba giocare un ruolo centrale all’interno delle istituzioni europee. Proprio sulla questione dei titoli pubblici detenuti dalle banche, un recente studio di Standard & Poor ha quantificato che in caso di fallimento di uno Stato la perdita sarebbe di 40 euro ogni 100 euro di esposizione verso il debito sovrano, confermando la necessità di maggiori accantonamenti per la banche più esposte, dei quali già si sta discutendo nel comitato di Basilea.
La politica italiana dovrà dimostrare, già a partire dalle prossime settimane, di avere ben compreso la lezione del passato a cominciare da quella sul bail-in. Sarà bene avere chiaro quanto le conseguenze di ratifiche acritiche di decisioni unilaterali possano penalizzare non solo e non tanto il sistema bancario ma soprattutto le prospettive di ripresa, crescita e sviluppo del nostro Paese. Soltanto così, quella rabbia espressa nelle urne potrà essere indirizzata e trasformata in energia positiva di cambiamento. Diversamente nessuno si salverà.