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Missioni militari, l’interesse nazionale e il dibattito che non c’è. Parla Massimo Artini

missioni

Le missioni militari fuori dai confini nazionali hanno poca utilità se non inserite in un’efficace politica estera e di difesa che riscopra l’interesse nazionale e lo rispetti. Eppure, mentre più di 6.200 soldati sono impegnati in 23 Paesi e 33 missioni riscuotendo l’apprezzamento di alleati e partner, in Patria il dibattito è pressoché assente.

È quanto emerso dal seminario “Missioni militari e interesse nazionale”, tenutosi oggi alla Camera e promosso dall’onorevole Massimo Artini, vice presidente della commissione Difesa di Montecitorio, in collaborazione con il Center for near abroad strategic studies (Cenass). Insieme ad Artini, sono intervenuti Paolo Quercia, direttore del Centro, Fausto Biloslavo, corrispondente di guerra de il Giornale, Francesco Semprini, corrispondente de La Stampa, Arije Antinori, esperto europeo di terrorismo della Sapienza, il generale Leonardo Di Marco e Fabrizio Cicchitto, presidente della commissione Esteri della Camera dei Deputati.

RISCOPRIRE L’INTERESSE NAZIONALE

Il cambio della legislatura è forse il momento opportuno per rilanciare il dibattito sull’interesse nazionale, troppo spesso dimenticato negli ultimi anni, in particolare sulla proiezione militare esterna. Rispetto a cinque anni fa, il contesto internazionale è d’altronde profondamente mutato, ha spiegato Artini ricordando le molteplici crisi internazionali, dalla Siria all’Ucraina, e i trend di instabilità globale, dall’arretramento americano ai massicci flussi migratori. “Il cambiamento delle relazioni internazionali ci ha lasciato più soli e con maggiori responsabilità di scelta”, ha detto Artini. A complicare la situazione ci ha pensato la crisi economica che ha attanagliato l’Europa, e che ha costretto l’Italia ha rivedere al ribasso le proprie spese destinate alla difesa. “Il mutamento economico e la crisi che il Paese sta soffrendo da dopo il 2011, hanno determinato l’impossibilità di mantenere determinate capacità di spesa e ciò deve inevitabilmente far pensare a scelte più precise nell’ottica dell’interessa nazionale”, ha rimarcato il vice presidente della commissione Difesa della Camera. Nonostante tutto, “l’Italia è rimasta indubbiamente membro responsabile della comunità internazionale”, ha aggiunto. “Da un punto di vista numerico siamo tra i maggiori contributori alle missioni internazionali, in molti casi secondi solo agli Stati Uniti, con un impegno molto apprezzato dai nostri partner”.

MA QUALE?

Riscoprire l’interesse nazionale presuppone però che si abbia chiara consapevolezza dello stesso. Su un’area non ci sono dubbi: il Mediterraneo, inteso non come un semplice mare, quanto piuttosto come “un sistema complesso di interdipendenze regionali (che coinvolge il Balcani, il nord Africa e il Medio Oriente) a cui si sommano molteplici traffici illeciti e criminali”, ha detto l’esperto Arije Antinori. Oltre il Mediterraneo però, i punti interrogativi sono diversi. Per poterli risolvere, spiega Artini, bisogna ripartire dal Libro bianco della Difesa del ministro Roberta Pinotti. Il documento “ha disegnato una prima prospettiva di interessi nazionali”; tuttavia “è stata una pecca non aver avuto il coraggio di approvarlo, neanche in prima lettura, lasciando difatti a metà quel processo di riforma”, ha aggiunto il deputato. Ora la palla passa al nuovo Parlamento: “Le forze politiche devono assumersi la responsabilità in materia di scelte e missioni, aprendosi a un dibattito sereno e approfondito, cosa che il più delle volte non viene fatto”. I presupposti per farlo ci sono. Primo, “la legge quadro sulle missioni internazionali, che è sicuramente da affinare ma che, dopo quattro legislature, ha dotato il Paese di uno strumento legislativo che permette di avere spazi politici di discussione su missioni”, ha detto Artini. Secondo, “la ricollocazione delle missioni predisposta dal ministro Pinotti”, con una riduzione dei contingenti in Iraq e Afghanistan, e la missione in Niger, ipotetico primo tassello di un riorientamento verso il Sahel che risponde maggiormente agli interessi italiani.

È d’accordo il direttore del Cenass Paolo Quercia, per cui vanno riscoperte le “priorità e le aree di interesse strategico”, sempre “ricordando che le missioni militari sono un mezzo e non un fine, non una modalità di addestramento o un atto dovuto alla sicurezza internazionale”. Le missioni militari, ha aggiunto Quercia, “non sono neanche un servizio che dobbiamo ad altri Paesi; sono piuttosto un atto politico, una delle decisioni politiche più complesse e più alte”. Esse, ha rimarcato l’esperto, “sono la sintesi di un sistema-Paese che si muove compatto e che viene proiettato all’estero”.

UN DIBATTITO DA RILANCIARE…

Se il punto debole è la mancanza di una cultura dell’interesse nazionale, emerge con chiarezza la necessità di “discuterne con franchezza”, ha detto Artini. “Questi temi – ha aggiunto – non possono essere lasciati soli nelle aule parlamentari”. Negli ultimi sette anni, ha spiegato Quercia, “il dibattito strategico è decisamente peggiorato, anche in virtù dell’assenza di una domanda di questo dibattito”. Ciò è imputabile alla politica, ma anche a “un cattivo pacifismo di vecchio stampo, che contesta la stessa esistenza delle Forze armate”, ha ricostruito il direttore del Cenass. “Ci siamo poi persi sulle questioni di legittimità, giuste ma non al cuore del dibattito strategico, così come non lo è la questione dei costi o dell’eticità delle missioni”. D’altra parte sono stati “pochissimi i dibattiti sul ritorni delle missioni, sui loro benefici e sulla funzionalità o meno a interessi nazionali”.

… E UN LINGUAGGIO DA RIVEDERE

Se la cultura è prima di tutto linguaggio, proprio dal lessico potrebbe forse iniziare il rilancio culturale dell’interesse nazionale e degli interventi militari. C’è infatti uno strano paradosso che avvolge le missioni condotte dai soldati italiani all’estero: se l’apprezzamento degli alleati e delle popolazioni locali è pressoché unanime, in Patria prevale un silenzio perbenista che dalla politica si allarga all’opinione pubblica. Guerra e nemico sono ormai termini diventati tabù, sostituiti da un lessico più politically correct con missione di pace, operazioni umanitarie, ribelli o insorgenti. Eppure, in molte missioni i militari hanno combattuto e combattono davvero, contro nemici in carne ed ossa, in scenari di guerra che si esprimono in tutta la loro brutalità. Il paradosso è che nel Paese sembra non se ne possa parlare, forse perché la politica ha paura di perdere voti, e forse perché la discussione su questi temi è praticamente scomparsa in ogni ambito della società civile. Lo hanno spiegato Fausto Biloslavo e Francesco Semprini, entrambi reporter di guerra con alle spalle tante esperienze al seguito dei militari italiani e non solo. Attraverso immagini e racconti, i due corrispondenti hanno mostrato un mondo, quello delle missioni militari, che difficilmente viene alla luce nel dibattito pubblico nazionale, ma che resta determinante per la politica estera e il prestigio dell’Italia.


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