Washington, dall’Italia arriva l’eco di minacce di possibili attacchi terroristici e delle puntuali azioni delle forze dell’ordine per intercettare ed arrestare possibili jihadisti. Lo stato dell’allerta non è cambiato ma la percezione del rischio a Roma sta aumentando. Negli Stati Uniti la consapevolezza è decisamente maggiore e ormai lo è almeno dal 2001. Proprio a Washington è ben conosciuto ed apprezzato un esperto italiano, Lorenzo Vidino, che si occupa di estremismo violento di matrice islamica presso la GWU. Lo abbiamo incontrato.
Professor Vidino, quali considerazioni possiamo fare sulla minaccia terroristica in Italia alla luce dei recenti arresti di Torino e Foggia?
Gli arresti delle ultime ore sono assai importanti poiché ci permettono di capire che la minaccia terroristica in Italia sia un fenomeno reale. Non si tratta di una considerazione che stupisce gli esperti del settore, pienamente consapevoli del livello di rischio cui il nostro Paese è soggetto, ma è motivo di allarme per i cittadini e per quanti avevano iniziato a pensare che con la disfatta dello Stato Islamico l’Italia sarebbe stata fuori pericolo. Quest’idea è del tutto errata e gli addetti ai lavori hanno chiara l’entità del fenomeno radicalizzazione e il livello di rischio connesso. Gli arresti mettono anche in luce l’eterogeneità del fenomeno jihadista in Italia, la sua molteplicità di forme sia con riferimento al profilo dei soggetti radicalizzati che con riferimento ai luoghi in cui avviene la radicalizzazione.
Quali lezioni possiamo trarre sul brodo di coltura in cui è maturato il processo di radicalizzazione di Elmahdi Halili a Torino e di Abdel Rahman a Foggia?
Quello di Torino è il classico caso di soggetto molto attivo su internet. Potremmo definirlo un antesignano, uno dei creatori della scena pro Isis online. È stato tra i principali fautori del movimento nazionale a sostegno del Califfato e faceva proselitismo in lingua italiana. Questo è un dato di grande rilevanza. Sembra proprio, poi, che Halili fosse pronto a passare dal proselitismo all’azione e dunque si è deciso di intervenire. Il caso di Foggia, invece, è diverso ma al tempo stesso assai interessante poiché si tratterebbe di un episodio di radicalizzazione negli ambienti della Moschea. Uno dei motivi per cui si è giunti all’arresto, tra l’altro, è legato al fatto che da diverso tempo quella Moschea avesse destato attenzione per le connessioni con il mondo jihadista. Negli ultimi due anni vi sono stati arresti pesanti in quell’area, come nel caso di Eli Bombataliev, ceceno fermato nel luglio del 2017 e foreign fighter tra i più pericolosi. Nel momento in cui si scoprì che all’interno di quella Moschea vi fosse un sistema di connessioni assai preoccupanti si attivarono le nostre forze di sicurezza. In quel contesto è scaturito l’arresto delle ultime ore. Sono, dunque, due dinamiche molto diverse e l’unico filo comune potrebbe essere rappresentato dalla crescente italianità del fenomeno. È il risultato di un processo graduale, iniziato diversi anni fa, che inizia ad equiparare la scena italiana a quella degli altri Paesi europei.
Possiamo, dunque parlare di un rischio di terrorismo autoctono?
Salve eccezioni, per la stragrande maggioranza dei casi abbiamo a che fare con soggetti nati o cresciuti su territorio nazionale, che in determinati casi hanno anche la cittadinanza del Paese in cui agiscono e che si radicalizzano in questo contesto. Ciò determina conseguenze sia sul piano operativo che sociologico. Prima di tutto andrebbe ridimensionata l’analisi che individua nei flussi migratori e nei barconi la causa principale di radicalizzazione. Statisticamente, la stragrande maggioranza dei soggetti che hanno attaccato in Europa o che sono stati attenzionati dai servizi di sicurezza non erano clandestini. In quasi tutti i casi la radicalizzazione è avvenuta in Europa.
Questo cosa significa per l’Italia?
Significa che nei prossimi anni il trend di soggetti radicalizzati potrebbe aumentare e se la dinamica della cittadinanza è sempre più diffusa c’è anche una considerazione sociologica da fare: non basta intervenire con la repressione ed è di vitale importanza potenziare gli strumenti di prevenzione. Se, ad esempio, si deve agire nei confronti di cittadini italiani radicalizzati, si può ben capire che lo strumento della espulsione diviene inutile. Basti anche solo pensare al caso di Torino per capire che il sistema istituzionale deve trovarsi nelle condizioni di intervenire con strumenti diversi da quelli utilizzati fino ad oggi. Sotto il profilo sociologico, si avverte sempre di più il tema delle seconde generazioni, come è avvenuto negli ultimi anni nei Paesi del centro Europa. Fino ad oggi, anche per ragioni numeriche, l’Italia non è stata interessata da episodi particolarmente preoccupanti ma il dato va cambiando. Per intervenire per tempo su questa dinamica è allora inevitabile puntare l’attenzione sugli strumenti di prevenzione. Su questo abbiamo ancora tanta strada da fare.
Le istituzioni italiane hanno cambiato l’approccio alla radicalizzazione con l’arrivo sulla scena dello Stato Islamico e con la sua recente caduta?
Purtroppo, poco è stato fatto sotto questo punto di vista. Abbiamo ancora un sistema prevalentemente repressivo, sicuramente efficace, che ha subito anche affinamenti ma tanta strada deve essere percorsa sul tema della prevenzione. Sono pochi i programmi sviluppati, inclusi alcuni progetti nel sistema carcerario, che però non hanno l’efficacia richiesta. Sarebbe necessario uno sforzo maggiore da parte del legislatore e dell’esecutivo. La repressione, massiccia ed efficace, dovrebbe essere accompagnata da un sistema preventivo più efficace.
Esiste una interrelazione tra i casi di radicalizzazione che hanno interessato il nostro Paese?
E’ davvero difficile trovare elementi di interconnessione. Ci troviamo difronte ad una eterogeneità totale dei profili coinvolti. Uno degli elementi più comuni è sicuramente il disagio socio economico che normalmente accompagna le storie di radicalizzazione ma non si può attribuire significato a questo dato perché rispecchia generalmente la condizione di tutte le comunità mussulmane in Italia e dunque non solo i possibili terroristi. Poi ci sono le eccezioni, come per il caso di Torino, che ci impongono di avere molta prudenza nel tentativo di analisi sociologica. Anche il caso di Foggia va in questa direzione e conferma l’impossibilità di trovare un filo rosso che accomuni tutte le vicende. Altro elemento su cui si riflette è quello della conversione. Diversi radicalizzati in Italia sono anche dei convertiti. Abbiamo in questo senso esempi assai significativi ma – nonostante ciò – non è possibile generalizzare e affermare che tutti i radicalizzati siano dei convertiti. Da un punto di vista geografico vale la regola della eterogeneità. Il fatto che si registrino più casi al nord che al sud Italia, per esempio, può essere dovuto al maggior numero di popolazione musulmana in quell’area del Paese e non ad altre ragioni. Una eccezione rispetto agli altri Paesi europei può essere data dal fatto che in Italia non vediamo grandi fenomeni delle città e sono, invece, più frequenti le radicalizzazioni in aree periferiche, rurali e più isolate. Ad esempio, sono partiti più foreign figheters per la Siria da San Donà del Piave che da Roma. Questo dato è assai peculiare. Anche il web non è causa unica e costante di radicalizzazione. Tanti sono i casi in cui sono le conoscenze personali ad avviare il processo. E’ così che si sono creati dei veri e propri hub come Ravenna, la zona di Como, Lecco, Varese e così via.
La rete di reclutamento dello Stato Islamico è ancora forte?
E’ in parte venuta meno ma non la considererei solo come una questione finanziaria. Certamente ancora esistono passaggi di fondi da e verso l’Europa ma non necessariamente i fenomeni radicalizzanti si supportano su quel sistema. Fino a un anno e mezzo fa il reclutamento di ISIS su spazio fisico e cibernetico era certamente più forte, basti pensare a quanti avevano costruito dal territorio del Califfato delle reti con il centro Europa per reclutare combattenti in Siria o promuovere attentati su suolo europeo. Molti di quei soggetti sono stati neutralizzati ma è arrivato il momento di ragionare sul fatto che il fenomeno terroristico non sia una prerogativa esclusiva dello Stato Islamico.
Con la fine di ISIS si esaurisce la minaccia terroristica?
Assolutamente no. La bolla di radicalizzazione che esiste da una ventina di anni nei Paesi occidentali ha avuto una impennata con ISIS ma non è destinata a finire con la disfatta territoriale del Califfato. Considero, poi, un errore pensare che la radicalizzazione possa essere connessa ad un gruppo terroristico e non ad un altro. In questo senso, ad esempio, tanti radicalizzati rifuggono dalle differenziazioni tra ISIS ed Al Qaida. È vero che tra i vertici delle organizzazioni vi siano contrapposizioni e persino una competizione ma è molto differente per chi decide di unirsi ad esse ed avvia un processo di radicalizzazione. Non bisogna cadere nell’errore di pensare che tutto il movimento jihadista sia confinato al ciclo di vita di Isis o di altri gruppi.