Se mettiamo sul piatto i rapporti che abbiamo con Mosca e quelli che abbiamo con Washington, la bilancia pende ancora nettamente sul versante americano. Questo il monito rivolto ai partiti che ambiscono a governare l’Italia dell’Ambasciatore Stefano Stefanini, già rappresentante permanente dell’Italia alla Nato e consigliere diplomatico del Presidente Napolitano, che oggi ci ha raggiunto per una chiacchierata sull’attualità dello scacchiere internazionale e sui possibili sviluppi della politica estera italiana nello scenario post-elezioni.
Ambasciatore, i nuovi, o rinnovati, protagonisti della scena internazionale, Russia, Cina, Turchia, Iran per citarne alcuni, hanno in comune un sostanziale rifiuto dei valori democratici e liberali occidentali. In Europa il gruppo di Visegrad mostra di tenere in poco conto i richiami dell’Ue al rispetto dello stato di diritto. L’ordine internazionale liberale è ufficialmente in crisi?
È indubbio che il modello democratico liberale che si è affermato e che contraddistingue l’occidente, l’area transatlantica ma anche molti Paesi dell’America Latina, ha perso gran parte del loro potere di attrazione. Paesi importanti come Russia, Turchia a Cina stanno muovendosi verso forme di plebiscitarismo che non corrispondono al nostro modello. Anzi, nel caso della Cina mettono in discussione le capacità economiche del modello occidentale rispetto alle loro. Il capitalismo di stato che è il modello cinese può sostenere di ottenere dei risultati migliori del capitalismo di mercato che prevale in occidente.
A proposito di regimi autoritari. In questi giorni abbiamo assistito al bilaterale di Ankara tra Erdogan e Putin che si è mutato poi in trilaterale quando i due sono stati raggiunti da Rouhani. L’intesa, sempre più forte tra Mosca e Ankara, condita dalla vendita del sistema anti-missile s-400 non compatibile con i sistemi Nato, che problemi crea per l’alleanza atlantica?
L’eccentricità della Turchia si è senza dubbio accentuata, anche rispetto alla Nato, e questo alla lunga crea un problema di compatibilità con la permanenza della Turchia nella Nato. Da tempo ormai la Turchia persegue una politica regionale molto autonoma, si è parlato di neo-ottomanesimo. La politica “zero problemi con i vicini” ha ormai creato problemi con tutti i vicini. Da una parte Ankara sente la destinazione europea come sempre meno realistica, uno scenario improbabile. Al contempo però, la Turchia ha mantenuto l’ancoraggio alla Nato come un ubi consistam essenziale per la propria sicurezza. Non credo che questo sia cambiato. Quanto questi giri di valzer e un regime interno sempre più autoritario e con limitazioni alla libertà dei mezzi di informazione e del potere giudiziario sempre più evidenti sia compatibile con la Nato, che rimane un’alleanza di democrazie, è da vedere. Secondo me la vera svolta sarà l’anno prossimo alle elezioni presidenziali del 2019, quando entrerà in vigore la nuova costituzione approvata nel 2017 per referendum. Se Erdogan vince avrà anche i poteri di una Repubblica presidenziale.
L’altro legato del vertice di Ankara sembra la definitiva spartizione della Siria in aree di influenza tra Ankara, Mosca e Teheran. Erdogan ha rinunciato alla testa di Assad ma in cambio si è fatto promettere di tenere a bada le velleità nazionaliste dei Curdi… l’occidente in tutto questo resta a guardare?
L’elemento più preoccupante di questo vertice è stata proprio l’assenza totale dell’occidente. Gli Usa, per scelta di Trump, hanno abdicato al ruolo di leadership che hanno sempre avuto in Medio Oriente. Lo hanno fatto per concentrarsi su altri problemi, per esempio il contenimento della Cina, ma è comunque un fatto preoccupante. L’Ue non è in grado di sostituirli e sulla Siria ha sempre svolto un ruolo di secondo piano.
Vede il rischio che in Siria si ripeta quanto accaduto in Iraq dopo la guerra, dove partiti gli americani il governo sciita aveva totalmente alienato la popolazione sunnita creando terreno fertile per l’ascesa dello Stato Islamico?
A questo proposito, il vertice di Ankara aveva un altro grande assente, l’Arabia Saudita, la componente sunnita che oggi non è rappresentata dalla Turchia. Sicuramente i tre Paesi che si sono riuniti sono gli attori principali nella crisi siriana, però non sono in grado di controllare tutti gli sviluppi sul terreno, dovranno fare i conti con un’area sunnita che era sotto il controllo di Isis e su cui è difficile che Damasco riesca a riprendere il totale controllo. Bisogna anche dire che l’Arabia Saudita che è sicuramente in rotta di collisione con l’Iran ha ristabilito un buon rapporto con la Russia, quindi i giochi sono abbastanza complessi.
Lasciando per un attimo la scena internazionale per dedicarci un po’ di più alle cose di casa nostra. Che idea si è fatto dell’episodio di Bardonecchia e dell’incidente diplomatico con Parigi?
Sull’episodio di Bardonecchia io sono un po’ controcorrente, nel senso che lo ritengo da parte francese un peccato veniale. Cinque doganieri che, seguendo una procedura che in buona fede ritenevano autorizzata, sono entrati in dei locali nel frattempo destinati ad altro uso nella stazione di Bardonecchia. Sarebbero bastate da parte francese delle scuse, che invece non ci sono state, per sanare l’episodio. La collaborazione tra Francia e Italia proprio su quel confine avviene in genere in senso inverso, perché l’Italia collabora per evitare che i migranti attraversino la frontiera e vadano in Francia.
Sui migranti e su altri temi ancora fatichiamo a far sentire la nostra voce con i nostri partner europei?
Non so quanto nell’episodio specifico di Bardonecchia abbiamo scontato questa fase di transitorietà in cui abbiamo un governo dimissionario. Diversamente dal caso tedesco o olandese, il problema in Italia è che a seguito dei risultati elettorali la maggioranza, e quindi il probabile futuro governo, promette una discontinuità che investe anche la politica estera. Per cui, i nostri interlocutori, non vedono nel governo Gentiloni rappresentativo di quello che sarà tra qualche mese la futura politica estera italiano. Questo non era il caso nei sei mesi del governo dimissionario tedesco, perché tutti sapevano che il cancelliere non sarebbe cambiato.
Le grandi questioni dell’agenda internazionale spesso vedono l’Italia incapace di prendere una posizione chiara, penso ad esempio all’approccio verso l’Ue e verso la Russia, è d’accordo?
Esattamente, i partiti che hanno vinto le elezioni, hanno dato delle indicazioni di politica estera e europea di discontinuità. Quindi è chiaro che Parigi e Bruxelles si domandano quale sarà la futura politica estera del nuovo governo italiano. Esiste un certo carattere inerziale, perché i governi cambiano ma certi interessi e certe esigenze rimangono, però abbiamo dei vincitori che hanno dato delle indicazioni di politica estera molto diverse.
C’è chi accusa le eccessive cessioni di sovranità all’Ue, chi scelte miopi di politica estera, ad esempio nei rapporti con Mosca, ma i partiti usciti vincitori dopo il 4 Marzo sono accomunati dal desiderio di restituire prestigio e influenza alla politica estera italiana. Secondo lei per farlo è necessario un cambio di rotta o occorre piuttosto stare con tutti e due i piedi nell’Europa e nell’occidente facendo però i compiti a casa?
Le posizioni da lei citate sono delle rivendicazioni di una politica estera più sovranista, è una rivendicazione basata sul concetto di sovranità nazionale. Sono convinto che in politica estera siano molto difficili dei cambiamenti di 90 gradi. Perché la politica estera è tirata da interessi nazionali che non cambiano. Possiamo certo articolare diversamente la nostra posizione in Europa e nella Nato, però questo richiede, come lei diceva, di fare i compiti a casa, non basta la campagna elettorale. Per esempio, la decisione del governo Gentiloni di associarsi alla maggioranza dei Paesi Ue e Nato nell’espulsione dei diplomatici russi per quanto sicuramente faticosa per noi è la decisione giusta. Ci sono dei momenti in cui la solidarietà con gli alleati diventa un interesse nazionale, alla luce delle interdipendenze che abbiamo con questi Paesi rispetto a quelle che abbiamo con i russi.
Anche perché, per quanti dubbi si possano avere sullo stato di salute attuale del blocco occidentale, dall’altra parte non sembra esserci nulla di promettente…
La Russia è un Paese con cui noi abbiamo molte simpatie e sintonie, nonché importanti interessi economici convergenti, ma non è un’alternativa al legame atlantico. Se mettiamo sul piatto della bilancia i rapporti che abbiamo con la Russia, economici, culturali e politici, con quelli che abbiamo con gli Usa, la bilancia pende nettamente sul versante americano, sono due dimensioni difficilmente commensurabili.