I robot devono pagare le imposte? Non è stata solo una boutade di Bill Gates il fondatore di Microsoft: “Oggi se un essere umano guadagna 50mila dollari all’anno, lavorando in una fabbrica, deve pagare le imposte. Se un robot svolge gli stessi compiti, dovrebbe essere tassato allo stesso livello”. Messa così può sembrare quasi una provocazione. In un altro intervento, Gates si proietta nel futuro ormai prossimo: “Non ritengo che le aziende che producono robot si arrabbierebbero se fosse imposta una tassa. L’utilizzo dell’intelligenza artificiale può generare profitti con risparmi sul costo del lavoro”.
Il miliardario americano prospetta dunque una doppia imposizione. Dovrebbero pagare un prelievo extra le aziende che costruiscono i robot e le imprese che li installano per sostituire la manodopera di uomini e donne. Solo negli Stati Uniti circa otto milioni di posti potrebbero essere bruciati dall’automazione. In Gran Bretagna, secondo alcune stime, sarebbero addirittura 15 milioni. Le previsioni, però, oscillano. Uno studio di McKinsey giunge alla conclusione che, se si considera l’attuale tecnologia, solo il 5% delle occupazioni attuali verrebbe cancellato dai robot.
Il dibattito è in pieno sviluppo su diversi piani. Dall’aspetto filosofico – con la tesi del trionfo finale della tecnica – a quello tributario e alle implicazioni etiche. Le tecnologie oggi esistenti possono automatizzare gran parte delle funzioni del lavoro. Il loro costo decresce, mentre quello del lavoro umano aumenta. Questa determinante, unitamente al progresso tecnico in materia di informatica, intelligenza artificiale e robotica, inducono a prevedere che ci saranno perdite significative di posti di lavoro e un peggioramento della disuguaglianza dei redditi.
Coloro che hanno responsabilità politiche stanno dibattendo come trattare questi temi: gran parte delle proposte riguardano gli investimenti in formazione o nella spesa sociale per attutire le conseguenze dell’automazione. L’importanza della politica tributaria è stata sottovalutata. I sistemi tributari possono incentivare l’automazione anche quando non è socialmente efficiente. Infatti, gran parte del gettito proviene dall’imposta sul reddito, un’imposta che i robot non pagano grazie a sistemi tributari che tassano il lavoro piuttosto che il capitale.
I robot sono, quindi, pessimi contribuenti. Il sistema tributario dovrebbe essere neutrale tra lavoro e capitale. Ciò può essere realizzato abolendo le deduzioni o detrazioni tributarie per l’automazione, oppure introducendo un’imposta sull’automazione, oppure aumentando le imposte sulle persone giuridiche, o meglio ancora combinando queste proposte.
Sovente il miglioramento tecnologico e l’innovazione aumentano l’occupazione complessiva; ad esempio, per oltre un secolo nell’industria manifatturiera la produttività e l’occupazione sono aumentate di pari passo, ma sono diminuite quando i mercati sono diventati saturi. Probabilmente, informatica e robotica genereranno più posti di lavoro di quelli che faranno perdere, ma non nell’industria manifatturiera. In breve, ci sarà un aumento complessivo, grazie principalmente alla crescita di occupazione di qualità nei servizi.
Un lavoro recente impiega un modello econometrico in cui i robot competono con i lavoratori in varie produzioni e distingue due fasi – prima e dopo il 1990. L’impatto dei robot è molto differente da quello della globalizzazione e della concorrenza da Cina e Paesi in via di sviluppo. In futuro, ove si arrivasse a un rapporto di un robot per mille lavoratori, la riduzione dell’occupazione in un Paese come gli Stati Uniti sarebbe al massimo dello 0,18-0,34% e quella dei salari dello 0,25-0,50%, quindi trascurabile.