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Mezzo governo americano è a Pechino. Dopo la (non) guerra commerciale, è tempo di pace?

dazi, armistizio, cinese

Il segretario al Tesoro americano, Steve Mnuchin, sta guidando una delegazione in missione per conto dell’amministrazione Trump a Pechino. Due giorni di visita in cui sul tavolo dei colloqui ballano miliardi di dollari di scambi commerciali: Stati Uniti e Cina sono ai ferri corti per le mosse aggressive con cui la Casa Bianca intende combattere il disavanzo commerciale sfacciatamente a favore dei cinesi, che il Presidente Donald Trump considera concorrenti scorretti che non solo si stanno approfittando dell’export verso l’America (spingendolo anche con mosse monetarie), ma stanno anche rubando dati con operazioni di spionaggio industriale con le quali si sono costruiti parte dei propri know how.

Mnuchin si è detto “eccitato” dall’essere in Cina, seguendo il pattern-entusiasta diffuso da Trump via Twitter: “Sono impaziente di essere con il presidente Xi [Jinping] in un futuro non lontano”; al solito, Trump alterna periodi in cui tratta il suo omologo cinese col sorriso ad altri in cui lo attacca.

Mnuchin guida una delegazione speciale – “Il nostro grande team finanziario” lo ha chiamato Trump – che comprende anche il segretario al Commercio Usa, Wilbur Ross, gli adviser della Casa Bianca Peter Navarro e Larry Kudlow, e lo Us Trade Representative, Robert Lighthizer, alcuni particolarmente schierati su una linea anti-Cina (Navarro e Lighthizer) altri più aperti (Mnuchin e Kudlow).

In particolare, la controparte cinese – guidata invece dal potentissimo vice premier Liu He, che ha già avuto contatti con gli americani a Washington e a cui Xi ha praticamente affidato la strategia sull’intero dossier economico – ha alzato le sopracciglia sulla presenza di Navarro, economista, agguerrito sostenitore del confronto duro con Pechino e per questo voluto da Trump nel suo team economico (tra l’altro pare che il presidente abbia faticato a trovarne uno altrettanto falco), che però (come scrive Quartz) “non parla cinese, né è noto che abbia alcuna esperienza di interazione con i politici cinesi”. In realtà, sembra proprio che non abbia passato molto tempo in Cina: l’esperto Bill Bishop dice che addirittura forse è proprio la prima volta che tocca il suolo cinese.

La presenza nella delegazione di persone come Navarro potrebbe complicare i colloqui – un funzionario governativo cinese ha detto al Wall Street Journal che nessuno del suo Paese prenderà impegni “con Navarro” – e per altro sottolinea come nell’amministrazione ci sia una divisione sul modo di vedere la situazione. Politico scrive che “è molto insolito che gli Stati Uniti inviino una squadra di negoziatori che non sono davvero d’accordo” e questa potrebbe essere una breccia che Pechino potrebbe sfruttare (da tempo i cinesi stanno cercando di usare le debolezze americane per far leva sul confronto: per esempio, stanno sfruttando le contro-tariffazioni alzate sul settore agricolo americano, in particolare su sorgo e soia, per far passare l’idea che alla fine saranno colpiti dalle contromosse collegate alle scelte di Trump propri i suoi elettori, quelli di alcuni stati statunitensi la cui economia locale è più legata all’agricoltura).

Per il New York Times sarà difficile intavolare discussioni concrete: in questo clima delicatissimo, c’è il rischio che non vengano nemmeno affrontati i due grossi obiettivi che l’amministrazione Trump s’è fissata, ossia spingere i cinesi a ridurre di almeno 100 miliardi di dollari l’enorme deficit commerciale (vale più del triplo) e spingere Pechino a rivedere il piano “Made in China 2025”. Questo secondo aspetto è quello in effetti considerato più strategico: il piano prevede che la Cina nei prossimi sette anni diventi sviluppatore e produttore di cutting-edge technologiesossia di tutte quelle tecnologie super innovative come l’intelligenza artificiale.

Washington dice che il piano è deprecabile perché le aziende cinesi lavorano al di fuori degli standard del libero mercato, sfruttando continue iniezioni di aiuti statali. In più gli americani accusano i cinesi di spingere i settori ultra-tecnologici attraverso furti di proprietà intellettuale, hacking di documenti riservati, insomma aiutini forniti alle ditte dalla diffusissima intelligence di Pechino (ultimo argomento di scontro su questo campo: l’amministrazione Trump ha intenzione di limitare l’accesso dei cinesi nei centri di ricerca americani più all’avanguardia).

L’atteggiamento di Pechino varia dal “combatteremo fino alla fine” la guerra commerciale, al “se la delegazione statunitense verrà in buona fede, i colloqui potranno essere costruttivi”, come ha detto il portavoce del ministero degli Esteri di Pechino, Hua Chunying, anticipando i preconcetti che la delegazione americana potrebbe portarsi dietro. Chunying ha spiegato che comunque non è realistico aspettarsi una risoluzione dei problemi dopo un solo round di colloqui.

“La Cina vuole che i colloqui producano soluzioni praticabili per mettere fine alla faida in corso e alle pratiche commerciali ingiuste degli Stati Uniti, e non è la sola a volerlo”, scrive un editoriale del China Daily, con riferimento all’Unione Europea, che ha in piedi screzi simili – ma ben più limitati – con Washington.


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