La Cina ha piazzato batterie missilistiche sulle Spratly, isolotti contesi nel mezzo del Mar Cinese Meridionale, una delle zone più calde del mondo, dove Pechino rivendica la sovranità, in quanto – dice – territorio cinese da oltre duemila anni (ma Filippine, Malesia, Taiwan, Brunei e il Vietnam hanno rivendicazioni simili).
L’informazione l’ha rivelata due giorni fa la CNBC, che avuto accesso a dati dell’intelligence americana – raccolti sia via aerea, con satelliti e voli di sorveglianza, sia via mare. Secondo le fonti della rete televisiva, si tratterebbe di sistemi missilistici terra-aria e terra-mare, ossia in grado colpire sia velivoli che imbarcazioni, trasferiti a Fiery Cross Reef, Subi Reef e Mischief Reef negli ultimi 30 giorni.
Si tratta di un ulteriore inasprimento della presenza militare cinese nell’area, previsto dagli esperti, che manda anche un segnale evidente nei confronti degli Stati Uniti, che sono alleati di alcuni paesi che vivono il confronto territoriale con la Cina (per esempio, Vietnam e Filippine) e compiono operazioni di sorveglianza militare e pattugliamento in quelle zone. Attività come i Fonop (Freedom of navigation operation), i passaggi di bandiera sotto l’egida della libera navigazione con cui i cacciatorpedinieri americani penetrano le 12 miglia nautiche degli isolotti su cui la Cina dichiara il controllo.
Il messaggio che arriva a Washington è chiaro: sappiate che quando vi avvicinate siete sotto l’obiettivo dei nostri missili – la Cina non ha ufficialmente parlato del dispiegamento missilistico, ma da tempo sostiene che le postazioni militari sono piazzate su un territorio che considera cinese, dove dunque può fare ciò che vuole, anche se – dice Pechino – si tratta di un dispiegamento a carattere difensivo. Washington detesta la militarizzazione di quelle acque – ricche di materie prime e ricchissime per il commercio – e tutto si inquadra nel delicatissimo momento tra i due paesi.
Wall Street Journal e CNN hanno informazioni su un altro terreno in cui si gioca questo scontro diplomatico (i cui ambiti alcune volte smottano verso il faccia a faccia militare, mentre colloqui di alto livello sono in corso per cercare una via che regoli le pratiche commerciali). Un laser installato nella base cinese di Gibuti ha interferito con gli aerei americani, di stanza in una base vicina, ferendo alcuni piloti e suscitando le proteste formali di Washington.
Un funzionario militare statunitense ha detto alla CNN che quegli stessi laser – di cui la Cina annunciava l’avanzamento tecnologico già nel 2015 – sono stati usati contro velivoli americani nell’area del Mar Cinese Meridionale.
L’aviazione americana giorni fa aveva emesso un avvertimento ufficiale su Gibuti, spiegando che si era reso necessario “a causa di laser diretti verso aerei statunitensi in un piccolo numero di occasioni separate nelle ultime settimane”. “Durante un incidente, ci sono state due lesioni di livello minore agli occhi di un equipaggio in volo su un C-130 dovute all’esposizione a raggi laser di grado militare, che sono stati segnalati essere originati dalla vicina base cinese”, si legge nel comunicato pubblicato dalla CNN.
I laser di livello militare di cui si parla potrebbero essere quelli noti come dazzlers, sistemi che emettono raggi che vanno a centinaia di metri di distanza e possono essere direzionati contro le cabine dei piloti, accecandoli temporaneamente (va da sé che è possibile che i piloti perdano anche il controllo del mezzo, per iperbole).
Davanti alla pubblicazione degli articoli, la portavoce del Pentagono, Dana White, ha detto che gli Stati Uniti, tramite il dipartimento di Stato, hanno alzato proteste formali affinché la Cina sospenda questo genere di attività, che “sono un vero pericolo per i piloti”, segnalando che le interferenze sono aumentate notevolmente nelle ultime settimane.
A Gibuti gli americani hanno una grande installazione, Camp Lemonnier, che utilizzano per gestire operazioni di anti-terrorismo di vario genere, da quelle contro l’ex Boko Haram in Nigeria fino a quelle sullo Yemen. Invece la Cina ha piazzato nel paese del Corno d’Africa la prima base armata extraterritoriale – una scelta nell’ottica del rafforzamento che il presidente Xi Jinping sta imponendo al paese, configurato come super-potenza globale, e dunque anche militare.
La vicinanza tra i due avamposti (per la Cina anche punto di attracco per i traffici commerciali in Africa) è una questione piuttosto sensibile: in audizione davanti ai congressisti a marzo, il generale Thomas Waldhauser, che comanda AfriCom, ha parlato di questo confronto ravvicinato, spiegando che comunque gli americani hanno “tutte le difese necessarie”.